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Il Venezuela di Chavez. Intervista al Prof. Luis Matute

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Federico Dal Cortivo di Europeanphoenix.net ha intervistato il Prof. Luis Matute, giornalista internazionale venezuelano del “Jornalero de Caracas” e corrispondente di guerra in Africa, Asia e Centroamerica,  Direttore video per il Ministero del Potere Popolare per la Difesa della Repubblica Bolivariana del Venezuela.

 
Prof. Luis  Matute, le pongo alcune domande sul Presidente Hugo Chavez e sul Venezuela.

D: Si erano  susseguite  in questi  ultimi tempi notizie su un aggravamento e addirittura morte  del Presidente Chavez, mentre era a Cuba per un trattamento medico radioterapico. Ci può dire da chi è partita questa notizia ?

A causa delle informazioni diffuse  in tutto il mondo  si è parlato della presunta morte del Presidente Chávez, mentre nei diversi settori ufficiali  del Paese è stata smentita questa  voce , diffusa  dall’ opposizione venezuelana, guidato dal candidato Henrique Capriles Radonski (con discendenza ebraica, nato a Caracas, 11/07/1972) e il suo gruppo di  opposizione sponsorizzato dalla Cia.

Il Presidente del Venezuela, ha parlato  attraverso il canale dello Stato, dimostrando l’infondatezza della voce e dicendo sarcasticamente  che”  Chavez  c’è ancora per un po’ “. Oltre all’attività sportiva e medica, il presidente  aveva tenuto delle riunioni di lavoro dell’arcipelago delle Antille con alcuni membri del suo gabinetto, per discutere e prendere decisioni importanti su temi di interesse nazionale, tra cui la nuova Legge Organica del Lavoro.

Fin dall’inizio pure effettuando le cure di radioterapia a Cuba, il  Presidente Chávez non ha smesso la sua attività , mantenendo la comunicazione con il popolo venezuelano, attraverso Twitter e via telefono. Così, ha offerto alla Nazione, in diverse occasioni, annunci importanti relativi allo sviluppo e all’avanzamento dei piani di rivoluzionari.

Durante una conferenza stampa del Partito Socialista  del Venezuela (PSUV), Chavez ha contattato l’ufficio politico e informato la  Nazione che sta recuperando gradualmente. Aveva  annunciato che sarebbe tornato in Venezuela   il 26 aprile e dopo vari giorni sarebbe  dovuto tornare a Cuba per continuare con il trattamento.

Egli ha dichiarato che le voci generate sulla sua  salute, mirano a generare ansia tra la popolazione, e sono infondate e malsane.  A questo proposito, il primo Vice Presidente del Partito  Socialista  del Venezuela (PSUV), Diosdado Cabello,ha  indicato che l’estrema destra sta cercando di ‘creare le condizioni per generare violenza’ nel Paese. Ha detto che le voci sulla salute del Presidente sono parte di una campagna di opposizione e di settori disperati.

Cabello aveva dichiarato che il Presidente stava   a Cuba e tornerà vivo’. L’articolo 235 della Costituzione stabilisce che l’assenza dal  territorio nazionale del Presidente  della Repubblica richiede l’autorizzazione dell’Assemblea nazionale o del  delegato del Comitato, dove esso si estende per un periodo di più di cinque giorni consecutivi. Tenendo conto di ciò che è menzionato in questo articolo, il Presidente ha inviato una comunicazione al Parlamento nazionale per autorizzare il suo trasferimento il  lunedì 30 aprile 2012 al fine di continuare il suo trattamento medico.

Il Presidente Chávez ha poii  emanato  la nuova Legge Organica del Lavoro  , in una cerimonia che si è tenuto presso il Palazzo di Miraflores  a Caracas. Tra le nuove norme introdotte  da segnalare il pagamento della liquidazione doppio in caso di licenziamento ingiustificato, la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore alla settimana  e l’eliminazione della figura di esternalizzazione del lavoro.

 

D: Chi sono oggi i maggiori oppositori interni al Presidente Chavez, l’oligarchia venezuelana ha ancora un ruolo di primo piano oggi ? Oppure i nemici sono solo principalmente esterni?

Il Presidente Chávez ha invitato gli oppositori di non continuare a giocare con  ‘la dottrina Obama’ ‘, ci sono settori che utilizzano “la dottrina Obama”, perché egli (Barack Obama) ha detto che, dopo il caso di Libia, questo è un metodo che sarebbe applicabile in futuro per il cambio di regime in quegli Stati considerati “ terroristi e fuorilegge”.( Stati canaglia NdA)

“Chi sarà d’accordo a venire a bombardare Caracas, Valencia, Maracaibo, i campi di petrolio, di porre fine al Paese? ‘Alcuni settori dell’opposizione che giocano… E  i settori dei venezuelani che  intendevano ignorare il trionfo della rivoluzione e cercano i colpi di stato”.

“Sarebbe il suicidio dell’opposizione politica venezuelana. Chavez ha dichiarato che non consentirà loro di destabilizzare il  Venezuela’. Egli ha sottolineato che lui  lotta alle elezioni presidenziali per ottenere una vittoria almeno intorno al 70 ‘%, circa 10 milioni di voti, questo sarà il tetto per  una grande vittoria”.

Chávez ha in oltre affermato che: “E’ la  modalità imperiale che cerca di  generare le guerre e  rovesciare i governi”. Il presidente Hugo Chávez ha citato il  conflitto interno che esiste in Siria, in cui gruppi violenti di opposti al governo di Bashar Al Assad hanno giocato un ruolo di primo piano e ha notato che la modalità imperiale è sempre  alla ricerca di  un braccio armato all’interno di una nazione  per  generare guerre civili e rovesciare i governi. «Poi vengono i paesi più grandi, a partire dagli  Stati Uniti che condannano  i governi che vogliono difendersi», ha detto Chavez.

Stessa cosa è successa qui l’ 11 aprile, non dimentichiamolo.

L’ambasciatore permanente della Siria alle  Nazioni Unite , Bashar Jaafari, ha denunciato che  dai  gruppi armati di opposizione sono stati uccisi circa  6.143 persone fin dall’inizio della violenza, nel marzo 2011. Jaafari ha inviato una lettera al Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon e al l’attuale Presidente del Consiglio di sicurezza Mark Lyall,  dove  ha spiegato che gruppi armati supportati da potenze occidentali hanno ucciso civili 3.211, tra cui 204 donne e 156 bambini, 478 poliziotti, 2088  militari e delle forze di  sicurezza siriane.

 

 

D: Parliamo ora del Venezuela di oggi, che alla maggior parte degli europei è sconosciuto , i media occidentali si curano poco di quello che avviene nel contenente Latino Americano in generale e del Venezuela in particolare, se non per disinformare a seconda degli interessi statunitensi e dei centri di potere finanziario. Sono passati oramai dieci anni dal tentativo di rovesciare il presidente Hugo Chavez da parte dell’oligarchia venezuelana con l’appoggio degli Stati Uniti. Da allora di passi in avanti ne sono stati fatti parecchi nella nazione latino americana, quale è il maggiore merito dell’attuale presidente, che tra le altre cose è sempre stato legittimamente eletto?

Hugo Rafael Chávez Frías, è nato a città llanera di Sabaneta, stato Barinas, il 28 luglio 1954. Ha studiato nella scuola primaria presso il gruppo di Julián Pino  e d’istruzione secondaria al  Liceo Daniel Florencio Leary, dove si laureò  in scienze. Questi sono gli anni durante i quali il bambino e l’adolescente, conosciuto in tutto il mondo è sotto la cura della nonna, Rosa Inés Chávez.

Nell’anno 1975 è all’ Accademia Militare del Venezuela con il grado di sottotenente, dove si laurea   in scienze e arti militari terrestri e comunicazioni  Questa Accademia era la casa dove nacque la sua passione per l’ideologia del nostro liberatore  Simon Bolivar. Continuò poi la sua brillante carriera per arrivare  al grado di tenente colonnello nel 1990. Ha seguito studi post-laurea presso la Universidad Simón Bolívar, nella specialità di scienze politiche. Le sue numerose competenze professionali e loro stretto contatto con le comunità, gli ha permesso  di conoscere meglio  la tragedia politica e sociale che affliggeva  la Repubblica Venezuelana in quel momento e cercare nuove alternative per  rispondere alla crisi politica ed economica della nazione.

 

INIZIATIVE POLITICHE

Legge organica per la  scienza e la  tecnologia  l’ innovazione (Locti)  ‘La nuova legge organica ci ha permesso di stanziare 1.641 miliardi di bolivares per  finanziare i progetti scientifici e tecnologici e mi creda non sono solo i progetti dello Stato, abbiamo una grande rete di ricercatori, scienziati e tecnici popolari che hanno molti progetti. Attraverso il programma d’ incoraggiamento della ricerca e dell’innovazione (Peii) d’altra parte, essi stanno sostenendo 7.723   ricercatori dando  loro incentivi economici.

Riduzione della povertà   globale  delle famiglie in Venezuela, che  è diminuita dal 43,9% nel 1998 al 26,7% nella seconda metà del 2011. La figura rappresenta una diminuzione di 17,2% punti percentuali nei 13 anni della rivoluzione, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (INE), la Banca centrale del Venezuela (BCV) e organizzazioni internazionali, come la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL) e del programma di United Nations Development Programme (UNDP).

L’estrema povertà nel paese è passata da 17,1% nella seconda metà del 1998 al 7%, l’ultima corrispondente per la misurazione del 2011. Il colpo di stato politico   ed economico del 2002 ,ha causato una  povertà globale del  55,1%! Oggi quella complessiva di povertà e miseria è del 7%,una conquista  della rivoluzione bolivariana  alla fine dell’anno 2006.

 

ALTRI DATI

• L’aumento degli stipendi per gli insegnanti è stato del   40%. Dal 1 maggio 2006. Aumentato del 30 % dal  1° ottobre 2006,  e poi un ulteriore 10% di cui hanno beneficiato  ben  362.000 insegnanti, di cui 233.000 sono attivi e 129. 397 pensionati.  •Dopo  il colpo di Stato il tasso di disoccupazione  era   nel 2003 quasi il 23% e  nel 2006 era sceso  a  circa il 9,6%.

• Essere venezuelano  è sinonimo di dignità nel mondo – istruzione gratuita a tutti i livelli, come  prevede la Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela all’ Art. 103   e conseguente  aumento d’ iscrizioni degli studenti nei vari corsi di studio.

• Implementazione di un programma e schema di borsa di studio con più di 13000 beneficiari  per gli studenti universitari e post-laureati per un importo di 500 mila Bs. • Creazione di venti 20 missioni in tutto il territorio nazionale, volto a promuovere la sicurezza, la salute, l’educazione e la giustizia sociale per tutti i  venezuelani, come: missione Robinson I, II Robinson, missione Barrio Adentro, missione Ribas, missione Sucre, identità di missione  MERCAL, Ippolita Nero, missione Guaicaipuro, missione Miracolo, missione Zamora, la missione Vuelvan Caras Missione ecc.

• Creazione e formazione di cooperative per  porre fine al capitalismo e allo sfruttamento dell’uomo sull’ uomo – creazione e  obiettivo di raggiungere  600 centri di diagnostica integrata per migliorare e tutelare  la salute a tutti i venezuelani.

• Creazione della Banca del Popolo, Credito del Banco Popolare e Banca finanziaria. Tutti questi con   bassi  tassi di interesse per portare miglioramenti, crescita,  sviluppo delle persona e stabilità sociale  e un tenore di vita più alto per   tutti i venezuelani.

In Venezuela vi era un sistema neo liberista con interferenze del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca mondiale (BM) sulle decisioni nella sfera economica del paese. Ora la Nazione è libera e sovrana  perché noi non  dipendiamo dal FMI o dalla  Banca mondiale  e sono state bloccate le privatizzazioni di settori strategici nazionali come le imprese del petrolio del Venezuela (PDVSA) per citarne alcuni.

• Crescita del prodotto interno lordo (PIL). È aumentata da bolivares 39,5 miliardi di euro nel 1999 a 50 trilioni bolivares nel 2006, a dimostrazione di   un forte balzo dell’economia venezuelana durante la rivoluzione bolivariana del 21% -La produzione interna è salito da novanta miliardi di dollari ($90.000.000.000) nel 1998 a uno cento quaranta miliardi di dollari ($140.000.000.000) nel 2006.

• Con il piano Siembra Petrolera, (2006-2012), la produzione petrolifera nazionale aumenterà da 3,3 milioni di barili di petrolio al giorno nel 1999 a 5,8 barili di petrolio al giorno nel 2012.  – La fuga di capitali è stata bloccata e pure  fermata la svalutazione del  Bolivar.

Varata la  Legge sulla  terra per eliminare il latifondo e il possesso della terra in mano a pochi, e quindi sostenere ulteriormente lo sviluppo economico del paese e la sovranità alimentare nazionale.

• L’alleanza con Cuba è stato uno dei più audaci e rivoluzionario passi del  Venezuela Bolivariano.

La Repubblica Bolivariana  del Venezuela è diventata la quinta stella nel firmamento del blocco più grande del continente. Il Venezuela è entrato   nel comune mercato Sud (MERCOSUR) per il raggiungimento dell’integrazione  economica  e  di legami più stretti, di commercio e di relazioni politiche con Paesi come ad esempio: Brasile, Uruguay, Paraguay e Argentina.

•Il Venezuela promuove una strategia energetica integrazionista con i Paesi di vari continenti in base ai principi di solidarietà, complementarità di sviluppo economico e sociale dei nostri popoli.

• Accordi in campo energetico sono stati fatti con Cina e  scambi di tecnologie per lo sviluppo del nostro Paese – Altri  accordi sempre nel settore dell’energia  con Malaysia, Siria, Iran, con alcuni paesi del Sud America , Europa e  i Caraibi.

• Il governo del presidente Hugo Chávez ha fatto la proposta di Alleanza Bolivariana America (ALBA) in contrasto alla zona di libero scambio (ALCA) ,che è la proposta imperialista legata agli Usa.

 

D: La Costituzione dello Stato è stata rivista in chiave bolivarista, ci può illustrare come?

La Costituzione Bolivariana: Il Presidente Hugo Chávez ha  varato la  Costituzione Unica( 1999) adottata dal popolo attraverso un referendum. Esso fu attaccato fin dall’inizio, ma oggi, molti di coloro che si opponevano alla sua adozione sono diventati i suoi  difensori principali.

E’ un  dato di fatto nella  storia. È la prima e sola  Costituzione venezuelana adottato dalla gente e votata   in un referendum il  15 dicembre 1999 ,  è stata sostenuta da 71,78% dei voti . Ma di là dei numeri è una rifondazione della Repubblica che ci ha permesso i progressi concreti verso quello che tutti vogliono (o dovrebbe volere): un Paese migliore.

Anni dopo, è possibile vedere una maggiore partecipazione da parte del popolo nella vita pubblica nazionale attraverso un quadro giuridico diverso, che garantisce il diritto alla vita, lavoro, cultura, istruzione, giustizia sociale e uguaglianza senza discriminazione o di subordinazione.

La creazione di un micro sistema finanziario, le leggi che governano l’attività produttiva del settore privato, la legge sugli idrocarburi e la creazione della Banca di sviluppo economico e sociale del Venezuela, sono stati emanati anche in questa fase di nuova Costituzione.  Impossibile da dimenticare  che il petrolio  è stato giustamente  considerato un’ industria di proprietà della nazione per evitare di continuare a privatizzare i nostri beni, come pure l’adozione delle linee guida del piano di sviluppo economico e sociale della nazione 2001-2007 viene rivendicata con la pianificazione e lo sviluppo come politica dello Stato.

 

D: Prof. Matute la Repubblica Bolivariana del Venezuela  ha intrapreso importanti progetti a livello sociale, il 2001 è stato definito dal presidente Chavez l’anno dell’offensiva sociale, mentre nel  2000  era partito il piano Bolivar, ci parli brevemente dei grandi programmi sociali intrapresi e di quelli che sono programmati per il futuro.

ANTICIPO STRAORDINARIO N. 07 DEL 2012. SICUREZZA SOCIALE. PUBBLICATO NEL DECRETO SULLA GAZZETTA UFFICIALE DELL’AUMENTO DI SALARIO MINIMO MENSILE OBBLIGATORIA PER I LAVORATORI DEL SETTORE PUBBLICO E PRIVATO. Il giorno martedì 24 aprile 2012, fu pubblicato nel Gaceta ufficiale Nro. 39.908, il decreto presidenziale Nro. 8.920, che ha aumentato il salario minimo in un trenta per cento (30), che entrerà in vigore in due fasi, la prima delle  quali dal primo maggio 2012 (1 °) e il secondo dal primo (1 °) di settembre dell’anno in corso. Così il salario minimo in Venezuela dovrebbe   essere il più alto in America Latina.

Il governo politico bolivariano  ha  evitato la crescita della disoccupazione, secondo la relazione dell’Istituto nazionale di statistica nelle persone, ad  aprile ben 166 mila furono incorporati nella attività produttiva.

Gli investimenti sociali sono  uno dei successi della gestione Bolivariana,   con  programmi sociali del governo nazionale, come pure l’accesso a beni e servizi della popolazione.

 

D: Il petrolio è una della più importanti risorse del Venezuela, la compagnia Pdvsa stava per essere consegnata dopo essere stata privatizzata ad un impresa statunitense controllata dalla Cia da parte dell’oligarchia interna.

La politica petrolifera  del governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela  è nazionalista e rivoluzionaria. Essa si basa sull’esercizio sovrano dello Stato  sulle principali risorse naturali del paese, come il petrolio , come stabilito nell’articolo 302 della Costituzione del 1999 e le rispettive leggi. Questo articolo prevede che “lo Stato si riserva  attraverso la legge organica corrispondente e per motivi di convenienza nazionale, i controllo dell’industria petrolifera e altre industrie, aziende agricole, servizi e d’interesse pubblico e beni strategici.” Lo stato deve promuovere la produzione nazionale di materie e il controllo dello  sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili, al fine di assimilare, creare e innovare tecnologie, generare occupazione e crescita economica e creare ricchezza e benessere per le persone’.

Una volta che lo stato ha riacquistato il controllo della Pdvsa, sono state  cambiate le linee guida. Seguendo le direttive costituzionali, il governo del presidente Hugo Chávez ha sviluppato una politica petrolifera di  piena sovranità, ha riacquistato il controllo della produzione al fine di metterlo al servizio del popolo venezuelano. Con la politica della piena sovranità sul petrolio,  riprende il controllo fiscale e tutto ciò che riguarda la raccolta di canoni, tasse, come pure l’amministrazione  dello sfruttamento di questa risorsa.

La nuova legge sugli idrocarburi impone che il gettito del settore del petrolio dovrebbe essere allocata per lo sviluppo della nazione, dell’infrastrutture  e della salute.

Seguendo questa linea guida, Pdvsa supporta anche direttamente lo sviluppo di Ribas missione Barrio Adentro, Mercal, e altri programmi sociali del governo nazionale. Inoltre, il fondo speciale per lo sviluppo (Fondespa), Pdvsa ha due miliardi di dollari che sono amministrati tramite un trust con la Banca  Economica e di  Sviluppo Sociale (Bandes), per la realizzazione di opere di trasporto di massa, come altri investimenti che garantiscano un significativo passo avanti nella economia nazionale. PDVSA ha contribuito anche al fondo di sviluppo.

Promozione della cooperazione e dell’integrazione nell’emisfero, la Repubblica Bolivariana del Venezuela ha promosso un’iniziativa regionale chiamata Petroamérica sulla base dei principi di solidarietà, complementarità  e sovranità, con negoziati diretti tra gli Stati e le imprese statali. Petroamérica è concepito come un  protagonista geopolitico orientato verso l’istituzione di cooperazione e integrazione, utilizzando le risorse energetiche delle regioni dei Caraibi, centrale e del  Sud America, come la base per migliorare le condizioni socio-economiche dei nostri popoli. Questa iniziativa è costituita da Petrosur e Petrocaribe.

Petrosur è costituito da Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela. Petrocaribe è composto di Antigua e Barbuda, Bahamas, Belize, Cuba, Dominica, Grenada, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, Giamaica, Nicaragua, Repubblica Dominicana, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Suriname e Venezuela. Petroandina include Bolivia, Ecuador, Colombia, Perù e Venezuela.

 

D: In politica estera sono sempre più stretti i legami tra America Latina e stati come l’Iran, la Cina, la Russia e il Sud Africa, questi ultimi tre fanno parte del BRICS, rapporti che potremmo definire Sud Sud in contrapposizione a quelli Atlantici dominati dagli Stati Uniti. Quale è il ruolo del Venezuela oggi in questi rapporti che rivestono un importanza sempre maggiore, testimoniata anche delle visite a Caracas nel recente passato del presidente della repubblica Islamica dell’Iran Ahamadinejad e  del presidente russo Putin?

Venezuela e Russia firmano importanti accordi industriali ,  e i governi della Russia e del Venezuela li hanno implementati con  la firma di più di una dozzina di nuovi accordi per  consolidare il loro rapporto strategico nel settore dell’energia, infrastrutture, scienza e tecnologia, trasporti, istruzione, cultura e industrie ed energia.   Gli accordi sono stati siglati a Palazzo Miraflores, in presenza di Hugo Chávez, il Presidente e il primo ministro russo Vladimir Putin.

I governi russo e venezuelano hanno  anche approvato un protocollo d’intesa tra POS-Marina e Sovcomflot, per stabilire una partnership strategica per la costruzione di diverse categorie di navi cisterna.   Una lettera d’ intenti tra  Petroleos del Venezuela,  Inter Rao Ues, è stato istituito per valutare la fattibilità di installazione di un impianto di generazione di energia elettrica della potenza  di 200-500 megawatt, e un memorandum d’intesa ha gettato  le basi per la cooperazione nella pianificazione di progetti energetici.

Nel campo della tecnologia, Russia e Venezuela hanno stabilito un memorandum d’intesa tra il Ministero della scienza, tecnologia e industrie intermedie e il Ministero dell’Istruzione e della Scienza della Federazione russa per sviluppare programmi di ricerca comuni.  Nel settore della cultura, è stato siglato un programma di cooperazione e scambio tra i ministeri della cultura di entrambi i paesi.   Sull’educazione, è stato  firmato un accordo con lo scopo di stabilire il quadro normativo per il riconoscimento reciproco e l’equivalenza dei documenti e dei titoli di studio, diplomi e certificati.

Protocollo d’intesa tra PDVSA e Gazprom, sulla cooperazione nel settore del gas.

 

D: Prof Matute, il presidente Chavez  è stato tra i maggiori artefici dell’ALBA, l’Alternativa  Bolivariana para nuestra Americas, che vede come protagonisti anche l’Ecuador di Rafael Correa e la Bolivia di Evo Morales,a che punto sono oggi i lavori e le prospettive per una reale integrazione politica del continente Latino Americano?

Su proposta del presidente Chavez è nato il Banco del Sur nel settembre del 2009 di cui fanno parte Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Paraguay e Uruguay, in chiara antitesi alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. Come vede lei una possibile integrazione monetaria dell’America Latina in contrapposizione soprattutto al dollaro?

Alba: Spazio economico comune come meccanismi finanziari.  Il sistema sarà supportato in Sucre e la banca di Alba.  Con l’assistenza di tutti i presidenti di otto Paesi e i loro capi di governo si è deciso di creare un sistema che s’integrerà con le economie degli Stati membri. ECOALBA sarà il nome che verrà utilizzato per descrivere il meccanismo di zona economica.

Chavez ha spiegato che Ecoalba, come qui di seguito denominato il meccanismo della zona economica, dovrebbe entrare in vigore entro un periodo di due anni dal momento della firma. Il presidente dell’Ecuador Rafael Correa, ha affermato che esso deve ricercare la  complementarietà di  scambio con reciproco vantaggio, e ha  suggerito di  usare il sistema unico di compensazione regionale (Sucre), che permette le operazioni commerciali con un sistema di regolazione interna delle valute senza dover utilizzare la valuta estera.

Il Sucre e la Banca di Alba (fondata nel 2008) saranno i meccanismi finanziari che supporteranno  lo slancio dell’integrazione economica del nuovo modello.    Evo Morales,ha dichiarato che “d’ora in poi, propongo che se Cuba non sarà  invitato al vertice delle Americhe,  nessun dei Paesi dell’ Alba parteciperà a  quel vertice “. I vari capi di Stato hanno poi  dato il loro sostegno all’Argentina nella disputa con la Gran Bretagna per le isole Malvinas.

Il Mercosur è una risposta importante per la nuova integrazione del Venezuela, perché esso andrà a beneficio della popolazione con l’incorporazione in un nuovo mercato di esportazioni e importazioni.

Il Mercosur  una nuova integrazione basata sulla cooperazione, lo sviluppo, complementarità e qualcosa di più nuovo, la solidarietà. Inoltre  il Mercosur si presenta come un forte schema negoziale alternativo a  terze parti: organizzazione mondiale del commercio (WTO) Unione europea (UE) e l’area di libero scambio proposto dell’Area Americhe (ALCA).

Esso rappresenta la voce del Venezuela nell’ambito del MERCOSUR?  Il Venezuela può equilibrare la struttura del Mercosur, dato l’asimmetria che attualmente esiste.’ ‘Il suo ruolo può essere interessante per migliorare il nuovo Mercosur e il suo profilo energetico petrolifero  può impostare nuovi rapporti nella  diplomazia del petrolio.

Gli effetti dell’ALCA per paesi latinoamericani cambierebbe questo scenario?  Porterebbe alla fine del lavoro, dal momento che l’ALCA non ha alcun meccanismo di protezione per i lavoratori. Effetti negativi sull’agricoltura, perché la liberalizzazione agricola potrebbe generare debolezza dei settori agricoli come pure della competitività.  Commercialmente, portare alla regione alla tariffa 0 potrebbe essere negativo  per il settore commerciale dall’arrivo di prodotti  verso l’economia latino-americano e la successiva delocalizzazione industriale.  Esso è una forma di penetrazione imperialista?  Potrebbe sorgere con l’ALCA un nuovo tipo di imperialismo, un neo imperialismo del XXI secolo in cui gli elementi commerciali sarebbe una forma di interferenza in America Latina.

Quali sono le differenze tra Alba e l’ALCA?  ‘L’ALCA è un controllo geostrategico e geopolitico sovranazionale’. Il suo carattere commerciale e internazionale si basa su uno scambio tra redditi diseguali. Esso dà poca importanza alle questioni sociali. Egli porta povertà, disoccupazione, esclusione sociale difficile sviluppo locale endogeno, non comporta la partecipazione della società civile nelle discussioni di questioni quali il diritto del lavoro, ambiente, diritti umani, indigeni e genere.

 

D: Con l’Iran il governo di Caracas ha stabilito ottimi rapporti, ci può dire in che campi spazia la cooperazione tra  due delle più importanti nazioni produttrici di petrolio al mondo?

Ahmadinejad e Chavez, perseguono l’obiettivo di indebolire ‘l’imperialismo’ e aprire nuovi scenari multipolari . Il leader venezuelano, una volta ha  chiamato ‘il gladiatore anti-imperialista’ il suo collega iraniano.   I funzionari degli Stati Uniti hanno espresso preoccupazione per le relazioni tra Iran e i governi di sinistra sudamericano tra cui Brasile, Bolivia, Ecuador, Cuba e Nicaragua.

Teheran ha rafforzato i legami con la regione ricca di materie prime, ma economicamente povera, promettendo la costruzione di case e fabbriche, in cambio di appoggio diplomatico per il suo programma di energia nucleare.   Alcuni negli Stati Uniti, compresi i media e i politici di destra, temono un  approfondimento della cooperazione e che quella con il  Venezuela possa aiutare l’Iran a sviluppare armi nucleari, cosa che  entrambi i Paesi fortemente negano.

Il Venezuela supporta il programma nucleare iraniano, Teheran dice che è per scopi pacifici. Lo stesso Chavez ha abbandonato i suoi piani di sviluppo nucleare dopo il disastro nucleare  in Giappone e insiste sul fatto che si oppone alle armi nucleari.    Il ministro della Difesa dell’Iran ha visitato il Venezuela nel 2010, il primo approccio di questo tipo, dopo  la rivoluzione islamica del 1979. Le forze armate di entrambi i Paesi, ha detto che hanno  un accordo per la cooperazione e la formazione, ma non ha offerto alcun  dettaglio.   Il Venezuela proprio di recente  ha negato vigorosamente quanto i media europei vanno denunciando , che l’Iran stava costruendo basi di missili nel paese sudamericano. Tuttavia, gli analisti ritengono che c’è una sorta di scambio militare tra le due nazioni.

Sul fronte petrolifero tra il  Venezuela e l’Iran c’è un alleanza e sono ambedue membri dell’OPEC. Nel 2010, hanno deciso di investire 760 milioni di dollari nei settori dell’energia,  Caracas ha promesso di inviare 20.000 barili al giorno di benzina a Teheran per un valore di 800 milioni di dollari.   Il Dipartimento di Stato USA ha detto che PDVSA ha inviato  almeno due spedizioni di  benzina in Iran tra dicembre 2010 e marzo 2011, valutate in  50 milioni di dollari.

Il contratto per la fornitura di benzina potrebbe aiutare l’ Iran se le potenze occidentali si induriscono nelle sanzioni per il suo programma nucleare.   In maggio 2011 gli Stati Uniti hanno  sanzionato la venezuelana PDVSA per aver mantenuto rapporti con l’Iran , ciò  ha suscitato le proteste di migliaia di lavoratori dell’azienda, mentre Chávez ha considerato la misura come una nuova aggressione dell’Impero.

Israele: Chávez è molto popolare nel mondo musulmano, in parte a causa della loro forte opposizione alla politica israeliana. Il leader ha detto che Israele è uno Stato’ genocida’ con le sue azioni militari contro i  civili  palestinesi e per la  guerra del Libano.   Chávez, tuttavia, non supporta Ahmadinejad  nelle dichiarazioni  che indica che l’Olocausto è stato un ‘falso’.

 

D: Un ultima domanda Prof. Matute, come vede lei attualmente i rapporti Venezuela e Europa e Italia e Venezuela, anche alla luce del nuovo governo liberista e filo atlantico di Monti, uomo della banca d’affari Goldman Sachs?

Sicuramente l’Italia dovrebbe tener conto delle  relazioni continui tra i due paesi, anche dal fatto che il Venezuela ha una comunità italiana tra le  più grandi del mondo.

Il governo di Monti,la  sua politica si basa su principi imperialistici e ha rapporti molto stretti con l’Alleanza atlantica, ma è un governo tecnico e temporaneo, quindi non si può gestire la politica internazionale come si dovrebbe. Egli  dovrebbe lasciare il suo ruolo entro l’anno prossimo  e quindi gli succederà  un governo politico, comunque, devono  pensare che molti cittadini italiani sono residenti nella Repubblica Bolivariana del Venezuela e lavorano in questo Paese, avendo anche la doppia cittadinanza. Non ci sono mai stati problemi tra le due Nazioni, sia  con il centro-sinistra al  governo, né con il governo di centro destra di Silvio Berlusconi, che ancora aveva ottime relazioni con Putin ed è stato uno dei pochi leader europei che mai ha attaccato  Chavez per la sua politica.

 

FONTE:  www.europeanphoneix.net

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Intervista con il presidente serbo eletto Tomislav Nikolic

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La Voix de la Russie, 26 Maggio 2012

Tra i politici di “alto rango”, con chi ha intenzione di prendere contatti a Mosca? Di quali questioni discuterete?

Oggi io sono qui come invitato di Russia Unita. L’incontro era stato fissato in precedenza. Lascerò la carica di Presidente del Partito Progressista Serbo, ma l’annuncio della mia decisione ufficiale sarà comunicata soltanto dopo il mio ritorno a Belgrado. Sono qui in qualità di invitato di Russia Unita e in qualità di Presidente serbo eletto. Dopo l’investitura ufficiale intendo chiedere un incontro ufficiale in cui discuteremo della cooperazione tra i nostri Paesi.

Possiamo aspettarci che si raggiunga una nuova tappa nelle relazioni russo-serbe? Quali sono le direttrici di cooperazione che voi ritenete prioritarie?

La Russia resta sempre un partner importante per la Serbia, ma la mia vittoria elettorale è anche la vittoria dell’idea che sia necessario cooperare con la Russia così come abbiamo cooperato fino ad oggi con l’Unione Europea. I nostri popoli sono uniti da un reciproco sentimento affettivo, una storia affine, una fede, una lingua, i costumi…ma la nostra cooperazione si deve basare anche sulle relazioni economiche che possono portare benefici ai nostri popoli: la Serbia potrà proporre alla Russia non soltanto prodotti agricoli ma anche prodotti industriali. La Russia, a sua volta, potrà aiutare la Serbia nella costruzione di centrali idroelettriche, raffinerie di petrolio e di grandi siti di produzione industriale.

La Russia può fornire alla Serbia le risorse energetiche che potranno essere pagate non solamente con la concessione di spazi ma anche con prodotti. La Russia ha bisogno della Serbia in quanto interlocutore affidabile della UE: la Germania e la Russia potranno cooperare attraverso la nostra mediazione tanto più che questa ci permetterebbe di assumere nuovi ruoli. La Russia può fare molto per la Serbia, ma la Serbia non chiede niente a titolo gratuito.

Ad oggi, il progetto South Stream è il progetto economico principale tra i due paesi. Quali altri progetti potrebbero interessare a Belgrado?

South Stream rappresenta la base della nostra cooperazione; ma la Russia, come la Serbia, ha altre proposte e progetti da proporre l’una all’altra. Il nostro Paese è piccolo se paragonato alla Russia, ma Mosca ha bisogno di partner come noi.

Parliamo di integrazione con l’Unione Europea: sotto la sua direzione, la Serbia come intende lottare per l’integrazione con l’Unione Europea? Siete pronti a rivedere i risultati degli accordi conclusi tra Belgrado e Bruxelles?

Durante la campagna elettorale ho fatto comprendere che avevo certe idee riguardo il Kosovo e la Metochia: lo status di queste due regioni è definito non solamente dalla mia opinione personale a riguardo, ma dalla Costituzione della Serbia che non permette di parlare di indipendenza e di referendum. Quanto alle negoziazioni tra la Serbia e l’autorità di Pristina, ho sempre domandato, quando ero ancora all’opposizione, che queste venissero portate alla luce e che il Presidente e il Primo Ministro non si nascondessero dietro le schiene dei loro funzionari. Insisterò affinché venga incaricato il capo del Governo, oppure che venga incaricato io stesso, di tenere delle consultazioni con i rappresentanti dei partiti che siedono in Parlamento per arrivare ad un consenso sul Kosovo e la Metochia. Evidentemente non possiamo più governare a Pristina ma Pristina non potrà governare a Kosovska Mitrovica. Bisogna provare a raggiungere un consenso al più presto possibile tra le forze parlamentari poiché capiamo che Pristina sta preparando un’azione politica, diplomatica e altro nel Nord del Kosovo e della Metochia.

Siete pronti ad un eventuale raffreddamento delle relazioni con l’UE se questa continuerà a fare pressioni su Belgrado in vista del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo?

Non ho inteso per il momento l’esigenza dell’Unione Europea di riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Il 13 giugno andrò a Bruxelles per capire se la questione rientra negli accordi siglati con Tadic. Allora, onestamente e apertamente, renderò partecipi i cittadini serbi. Io non ho nelle mie mani il diritto di raffreddare le relazioni con Bruxelles, i serbi dovranno prendere una decisione. Loro decideranno, noi eseguiremo. Ma io penso che abbiamo abbastanza tempo prima dell’adesione all’UE per sviluppare il Paese seguendo i principi in vigore in Germania per esempio: mi piacerebbe che i serbi vivessero in Serbia così come i tedeschi in Germania.

L’entrata nella Unione Europea obbligherà la Serbia a rinunciare al libero commercio con la Russia. Non credete che la Serbia dovrà, un giorno, scegliere il proprio partner economico?

Il mio desiderio è di fare in modo che la Serbia non debba scegliere e che abbia la possibilità di andare ad Est come ad Ovest. Prima di diventare membro dell’UE potremmo approfittare ancora dell’accordo con la Russia. Nel frattempo, ci saremo abbastanza sviluppati da non avere bisogno di agevolazioni fiscali per le nostre esportazioni verso la Russia. L’accordo doganale, questo regalo della Russia, dovrà favorire il nostro sviluppo economico. La Russia ci ha donato una chance per raggiungere un livello tale da non dover avere più bisogno delle agevolazioni doganali ma questi dodici anni di vantaggi economici non sono stati utilizzati sempre nella maniera più proficua per la Serbia.

In Russia si discute di una “lista di Milosevic”, una lista di funzionari europei rei, in un modo o nell’altro, della morte del presidente Milosevic. Cosa ne pensate?

Se la Russia prepara una richiesta del genere la inoltrerà al Tribunale internazionale che giudica sull’ex Jugoslavia con delle prove. Sarà un bene se la Russia riuscirà a fornire questi elementi di prova. In Serbia si hanno molti dubbi riguardo la morte di Milosevic: le circostanze sono state dubbie e tenebrose. La Serbia deve lavorare attivamente presso il Tribunale dell’Aja per aiutare i suoi cittadini a provare la loro non colpevolezza.

Qual è il vostro atteggiamento nei confronti del Tribunale dell’Aja? Fino a che punto è legittimo? Come spiega la morte di sei accusati nel corso dei processi che si tengono all’Aja?

Undici, non sei. Francamente, come noto, questo tribunale è stato formato assecondando un desiderio russo. La Serbia non può farci niente: ne ha riconosciuta l’esistenza e adottato le leggi in piena cooperazione. Belgrado non ha che da attendere la chiusura dei processi accordando pieno sostegno agli accusati.

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Il caso di Houla

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Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 3 Giugno 2012

Gli occidentali non sbagliano mai, è improbabile che riconosceranno di essersi sbagliati sul massacro di Houla. Ma la cosa importante non è se o meno rettificare la falsa immagine della Siria che la loro propaganda fabbrica. La cosa importante è il mutato equilibrio di forze tra la NATO e la SCO. Il caso di Houla mostra che gli occidentali non sono in grado di sapere ciò che accade sul campo, mentre i servizi d’informazione militari russi sono ben consapevoli della situazione sul terreno.
 

 
 
108 corpi sono stati mostrati dall’esercito libero “siriano” [1] in una moschea di Houla. Secondo i ribelli, questi erano i resti dei civili uccisi il 25 maggio 2012 dalla milizia filogovernativa, conosciuta con il termine “Shabbiha”.

Il governo siriano è apparso completamente traumatizzato dalla notizia. Ha immediatamente condannato le uccisioni attribuitegli dall’opposizione armata.

Mentre l’agenzia di stampa nazionale, SANA, non ha potuto fornire dettagli con certezza, l’agenzia di stampa cattolica siriana, Vox clamantis, ha rilasciato una testimonianza immediata su una parte degli eventi, accusando formalmente l’opposizione [2]. Cinque giorni dopo, il notiziario russo Rossia 24 (ex Vesti) ha trasmesso un servizio di 45 minuti che resta, ad oggi, l’indagine pubblica più dettagliata [3].

Gli Stati occidentali e del Golfo, che lavorano per un “cambio di regime” in Siria e hanno già riconosciuto l’opposizione come interlocutore privilegiato, hanno adottato la versione dei fatti forniti dall’ELS senza attendere la relazione della missione degli osservatori delle Nazioni Unite (UNSMIS). Come punizione, la maggior parte di loro ha attuato una misura preparata in caso di necessità: l’espulsione degli ambasciatori siriani dai loro rispettivi paesi. Questa misura politica non equivale all’interruzione delle relazioni diplomatiche, poiché rimane in loco il resto del personale diplomatico siriano accreditato.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una dichiarazione presidenziale di condanna del massacro senza nominarne i colpevoli. Ha anche ricordato che il governo siriano ha le sue responsabilità nel proteggere il suo popolo con mezzi adeguati, vale a dire senza l’uso di armi pesanti [4].

Invece, l’Alto Commissario per i diritti umani Navi Pillay, ha riferito le accuse che incolpano le autorità della Siria e ha chiesto che il dossier venga trasferito alla Corte penale internazionale.

Il presidente francese François Hollande e il suo ministro degli esteri Laurent Fabius hanno espresso la loro intenzione di convincere la Russia e la Cina a non interferire con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi l’uso della forza. Mentre la stampa francese accusa la Russia e la Cina di proteggere un regime criminale.

In risposta a questa accusa, il vice ministro degli esteri russo Andrej Denisov, si è rammaricato che la posizione francese sia una “semplice reazione emotiva,” priva di analisi. Ha sottolineato che la posizione coerente del suo paese, in questo caso come in altri, non è sostenere un governo, ma un popolo (sottintendendo che il popolo siriano ha confermato il presidente al-Assad nell’ultimo referendum costituzionale).

Su richiesta del governo di Damasco, la missione degli osservatori delle Nazioni Unite ha visitato il sito. È stata accolta dall’opposizione che controlla la zona ed è stata in grado di stabilire diverse osservazioni per la preparazione della sua relazione intermedia.

In una conferenza stampa per uso interno, il Presidente della Commissione d’inchiesta siriana sul massacro ha letto una breve dichiarazione che rivela i risultati preliminari dell’indagine in corso. Ha detto che il massacro è stato perpetrato dall’opposizione nel contesto di un’operazione militare dell’ELS nella zona.

Consapevole del fatto che la relazione della missione degli osservatori delle Nazioni Unite potrebbe rivoltarsi contro di essa, l’Occidente sta creando una Commissione per ulteriori indagini da parte del Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra, da essa controllata. Questo potrebbe rapidamente produrre un rapporto per imporre una versione prima della missione di osservatori renda le sue conclusioni.

 
Come facciamo a sapere cosa è successo a Houla?

Immediatamente e senza indagini, le agenzie e i governi occidentali hanno attribuito al governo siriano la responsabilità della strage. Due gli ostacoli principali che impediscono le indagini: il governo siriano ha perso il controllo di Houla per diverse settimane. I giudici siriani non possono recarvisi e se dei giornalisti ci riescono, ciò avviene con il consenso e sotto la stretta supervisione dell’ELS. C’è una sola eccezione: un team di Rossiya 24, il canale di informazione russo, è riuscito a recasi nell’area senza scorta e a realizzare un rapporto eccezionalmente dettagliato.

La Commissione ufficiale siriana afferma di aver ricevuto numerose testimonianze, ma dichiara che le presenterà alla stampa una volta che la relazione finale sarà preparata.Finora, l’identità di questi testimoni è protetta dalla segretezza delle indagini. Tuttavia, televisione di stato ha trasmesso diverse testimonianze, il 1° giugno.

Gli investigatori hanno anche dei video forniti esclusivamente dall’ELS. Infine, siccome l’ELS ha ammucchiato i cadaveri in una moschea e il giorno successivo ha iniziato a seppellirli, non è stato possibile per gli osservatori delle Nazioni Unite svolgere accertamenti legali sui corpi.

Houla non è una città, ma un’area amministrativa che comprende tre comunità di circa 25.000 abitanti ciascuno, ora in gran parte abbandonata. La città sunnita di Tal Daw è stata sotto il controllo dei ribelli per diverse settimane. L’esercito libero “siriano” aveva imposto la sua legge. L’esercito nazionale controllava le vie di comunicazione tenendo delle postazioni su diverse strade della zona, ma mai si avventurato lontano da queste strade.

Un gruppo di individui ha rapito i bambini e ha cercato invano di estorcere dei riscatti [5]. In definitiva, questi bambini sono stati uccisi pochi giorni prima della strage di Houla, ma i loro corpi sono stati portati dall’esercito libero “siriano” per essere esposti con gli altri.

Il 24 maggio sera, l’esercito libero “siriano” ha lanciato una vasta operazione per rafforzare il suo controllo su tutta l’area e fare di Tal Daw una nuova base. Per fare questo, da 600 a 800 combattenti, provenienti da distretti più o meno lontani, riunitisi a Rastan e Saan, hanno poi attaccano simultaneamente le postazioni militari. Nel frattempo, una squadra fortificava Tal Daw con l’installazione di cinque batterie di missili anticarro ed epurava la popolazione eliminando alcuni degli abitanti.

Le prime vittime a Tel Daw erano una dozzina di parenti di Abd al-Muty Mashlab un membro del partito Baath, appena eletto, diventato segretario dell’Assemblea Nazionale, e poi la famiglia di un alto ufficiale, Mouawyya al-Sayyed. Gli obiettivi successivi furono le famiglie di origine sunnita che si erano convertite alla Scia. Le vittime includono la famiglia di due giornalisti di Top News e New Orient News, agenzie di stampa aderenti a Réseau Voltaire. Diverse persone, compresi i bambini, sono state violentate prima di essere uccise.

Dopo che una sola delle posizioni dell’esercito nazionale era caduta, gli aggressori hanno cambiato la loro strategia. Hanno trasformato la loro sconfitta militare in un’operazione di propaganda. Hanno attaccato l’ospedale al-Watani, e l’hanno bruciato. Hanno preso dei corpi dall’obitorio dell’ospedale e quelli di varie vittime, nella moschea, dove sono stati filmati.

La teoria di un massacro commesso da una singola milizia filogovernativa non resiste ai fatti. C’erano stati scontri tra lealisti e ribelli, e numerosi massacri di civili filo-governativi da parte dei ribelli. Poi, una messa in scena è stata organizzata dall’esercito libero “siriano”, mischiando corpi dalle diverse origini, corrispondenti a decessi avutisi in parecchi giorni.
Inoltre, l’esistenza degli “Shabbiha” è un mito. Ci sono certamente dei filogovernativi armati che potevano commettere atti di vendetta, ma non c’è nessuna struttura, nessun gruppo organizzato che può essere descritto come milizia filo-governativa.

 
Implicazioni politiche e diplomatiche

L’espulsione degli ambasciatori siriani dagli stati occidentali è una misura preparata e coordinata con largo anticipo. Gli occidentali aspettavano un massacro di questo tipo per attivarsi. Hanno ignorato i molti massacri precedenti, perché sapevano che erano stati commessi dall’esercito libero “siriano”, e hanno arraffato ciò che credevano fosse stato perpetrato da milizie filo-governative.

L’idea di una espulsione coordinata non è stata concepita a Parigi, ma a Washington. Parigi l’aveva accettato in linea di principio, senza considerare le implicazioni legali. In pratica Lamia Shakkour è anche l’ambasciatrice siriana all’Unesco, e non può essere espulsa dal territorio francese in virtù dell’accordo di soggiorno. E anche se non sarà più accreditata presso l’UNESCO, non può essere espulsa perché ha la doppia nazionalità francese e siriana.

Le espulsioni sono state coordinate da Washington per creare l’illusione di un movimento generale, al fine di esercitare pressioni sulla Russia. Infatti, gli Stati Uniti cercano di testare il nuovo equilibrio di potere internazionale, di valutare le reazioni russe, e fino dove si può andare.

Tuttavia la scelta del massacro di Houla è un errore tattico. Washington ha preso la questione, senza verificare i dettagli e pensando che nessuno potesse controllarlo. Si dimentica che in alcuni mesi, Mosca ha investito sul paese. Più di 100.000 russi vivono in Siria. Non si sono, naturalmente, limitati a schierare un sofisticato sistema antiaereo per scoraggiare i bombardamenti NATO della Siria; hanno anche insediato unità dell’intelligence comprendenti dei militari in grado di muoversi nelle zone dei ribelli. In questo caso, Mosca è riuscita a far luce sui fatti in pochi giorni. I suoi specialisti sono riusciti a identificare 13 membri dell’ELS colpevoli degli omicidi, e hanno trasmesso i loro nomi alle autorità siriane. In queste condizioni, non solo Mosca non si è lasciata impressionare, ma ha indurito la sua posizione.

Per Putin, il fatto che gli occidentali hanno voluto fare del massacro di Hula un loro simbolo, indica che non controllano più la realtà sul terreno. Dopo aver ritirato gli ufficiali che hanno inquadrato l’esercito libero “siriano”, gli occidentali non hanno altra informazione che i loro droni e satelliti per osservare ciò che accade. Sono diventati vulnerabili alle menzogne e alle vanterie dei mercenari che hanno spedito sul posto.

Visto da Mosca, questo massacro è solo una tragedia fra le tante che i siriani subiscono da un anno. Ma la sua strumentazione anticipata da parte degli occidentali, dimostra che essi non hanno ancora sviluppato una nuova strategia collettiva dalla caduta dell’Emirato Islamico di Bab Amr. In definitiva, operano alla cieca e quindi hanno perso il vantaggio che permette al giocatore di scacchi di vincere.


NOTE:

[1] Réseau Voltaire ha scelto di trascrivere ELS inserendo “siriano” tra virgolette per sottolineare che questa milizia è in gran parte composta da stranieri, e che il suo comando non è siriano.
[2] «Fractionnements irréversibles en Syrie?», Vox Clamantis, 26 maggio 2012.
[3] Global Research ha tradotto la trascrizione di brani estratti dal programma. Vedasi: “Opposition Terrorists “Killed Families Loyal to the Government” (http://www.voltairenet.org/article174441.html)”, Voltaire Network, 1 giugno 2012.
[4] «Syrie: que dit le Conseil de sécurité? (http://www.voltairenet.org/article174343.html)», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 28 maggio 2012.
[5] Questo è attualmente il principale problema della sicurezza nel paese. Molti delinquenti che erano stati reclutati nei ranghi dell’esercito libero “siriano” sono stati smobilitati per mancanza di fondi. Rimasti in possesso delle armi fornite dall’Occidente, si sono dati alla criminalità organizzata, soprattutto al rapimento per riscatto.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Hula: la grande messa in scena

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Un vero scenario da “missione impossibile”: come sottomettere un Paese con la forza, visto che la comunità internazionale – diciamo anche l’ONU – non dà il via libera a un intervento militare?

Nel caso della Libia la “cottura” dell’opinione pubblica e la manipolazione dei membri del Consiglio di Sicurezza erano avvenute rapidamente e con particolare efficacia rispetto alla situazione che si prospetta per la Siria.

In quest’ultimo caso, l’opinione pubblica resta più scettica nei confronti degli apostoli “umanitari” che hanno lasciato la Libia sotto le macerie e con decine di migliaia di morti – per alcuni sono stati oltre 120.000. Questi “umanitari” sono ripartiti dopo essersi impadroniti di miliardi di dollari che appartenevano al popolo libico, ed essersi assicurato il controllo delle risorse petrolifere.

In relazione a tali comportamenti ben poco umanitari Russia e Cina oggi si oppongono a che un’operazione simile sia replicata in Siria.

Che fare, dunque, per sbarazzarsi del Presidente Bashar al-Assad e prendere il controllo della Siria?

C’è quantomeno la faccia da salvare per il Premio Nobel per la Pace del 2009: intraprendere una guerra senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe mal visto dall’opinione pubblica internazionale. Al contrario, fare appello a mercenari che non necessitano di autorizzazioni da parte del Consiglio di Sicurezza diventa un’alternativa interessante.

E’ sufficiente armarli, pagarli, garantire loro un supporto tecnico e logistico. Fino a che essi renderanno la vita dura a Bashar al-Assad e al popolo siriano gli “umanitari” faranno sì che i media presentino le loro violenze e i loro crimini come esito dell’intervento dell’esercito siriano.

L’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo – allestito a Londra dai servizi di sicurezza britannici – raccoglierà foto di vittime insanguinate mentre specialisti si occuperanno dei testi che potranno documentare la crudeltà del regime siriano.

Questa prima fase guerrigliera non ha però dato i risultati sperati. Il referendum sulla nuova Costituzione ha potuto tenersi come si confidava, con una partecipazione di oltre il 58 % dell’elettorato e più del 50 % a favore dell’approvazione. Lo stesso si è verificato con le elezioni legislative di inizio maggio: a dispetto delle azioni terroriste, esse si sono svolte secondo le regole date dalla nuova Costituzione e nove partiti politici sono entrati in Parlamento.

La presenza di gruppi terroristi e di mercenari al soldo di Paesi stranieri è oltretutto sempre più documentata da parte degli osservatori della missione di pace e da parte di Paesi quali la Russia e la Cina, contrari all’ingerenza di Stati stranieri. Persino il Segretario Generale delle Nazioni Unite – che non può essere tacciato di favoritismi nei confronti del regime siriano – ha dovuto riconoscere la presenza di gruppi terroristi all’interno del territorio siriano e il fatto che la violenza provenga da più parti, non solo da parte del governo.

Era dunque arrivato il momento, per il fronte bellicista, di fare un salto di qualità. Secondo svariate fonti, sono stati incentivati scontri al fine di provocare la morte di soldati, terroristi e numerosi civili, fra cui anche bambini. Le stesse fonti riportano che commando avrebbero radunato molti dei cadaveri nello stesso luogo utilizzando mezzi balistici utili a incriminare il governo siriano come responsabile unico del massacro.

Bisogna credere che tale scenario sia stato preparato da tempo perché, appena pervenuta la notizia del massacro, tutti i principali oppositori del regime si sono mobilitati: riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, espulsione degli ambasciatori siriani, campagne mediatiche con abbondanza di video e di foto prontamente disponibili. Le agenzie di stampa hanno da subito parlato di responsabilità del governo nel massacro, prima che si fosse svolta alcuna inchiesta in proposito.

Si è dato ben poco peso alle obiezioni del generale Robert Mood, capo degli osservatori della missione di pace, il quale ha attribuito a entrambe le parti la paternità della tragedia. Queste “sfumature” sulla ripartizione delle responsabilità non sembrano essere state prese in considerazione dai nostri governi e dai nostri media.

Kofi Annan, recatosi a Damasco per incontrare le autorità governative, ha fatto appello a tutte le parti perché depongano le armi e si siedano attorno a un tavolo per regolare pacificamente il conflitto.

Russia e Cina confermano il loro appoggio al piano Annan e si oppongono a ogni intervento militare mirante a rovesciare il governo e a cambiare il regime: ogni prerogativa in merito appartiene al popolo siriano, e a esso soltanto.

L’opinione pubblica non trova sempre il tempo di verificare quanto le viene raccontato, tuttavia altri se ne occupano, cosicché il grande inganno – quello del malvagio regime che non capisce che l’argomento della forza, e dello sventurato popolo in attesa dell’intervento umanitario per potersi liberare – fatica a decollare. Un esempio è dato dall’intervista radiofonica resa dal sociologo Alain Soral proprio su questa vicenda: “Ci sono state troppe menzogne in passato, troppi crimini commessi – guerre sanguinose intraprese sulla base di trucchi e manipolazioni – perché quegli stessi mentitori e manipolatori la facciano franca anche stavolta. Sono gli stessi che hanno fatto più di 100.000 morti in Libia senza versare una lacrima, e ora, davanti a 100 morti di cui non conosciamo i responsabili, sono pronti a scatenare un’altra guerra per provocarne altre decine di migliaia. No grazie, io non ci sto”.

Al-manar

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“La parabola. Geopolitica dell’unipolarismo statunitense”– di Giacomo Gabellini, Anteo Edizioni, 2012

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Il crollo dell’Unione Sovietica ha permesso a Washington di instaurare un assetto geopolitico unipolare incardinato sugli Stati Uniti. Per raggiungere questo obiettivo, i centri decisionali statunitensi hanno escogitato e messo in atto una strategia “mondialista” volta ad omologare tutti i popoli che abitano il pianeta ai principi del nuovo ordine mondiale. Tale strategia si è dispiegata sul piano economico attraverso l’espansione coatta del libero mercato, su quello geopolitico con l’occidentalizzazione del mondo e su quello militare con la riconfigurazione ed espansione verso est della NATO.

Questo libro indaga i passaggi fondamentali che caratterizzano questa “parabola” unipolare statunitense, che ha conosciuto la propria fase ascendente e il proprio picco nel corso degli anni ’90, per poi intraprendere una discesa progressiva che non pare ancora essersi conclusa. Ne emerge uno scenario molto distante dalle raffigurazioni ufficiali, che vede numerosi attori emergenti implementare piani che mirano ad alterare i rapporti di forza internazionali e a ridefinire l’assetto mondiale, in cui l’avvento del multipolarismo comporterà la conclusione della breve e turbolenta “parabola” statunitense.

 
 
INDICE GENERALE

 
PREFAZIONE di Fabio Falchi 5

 
INTRODUZIONE di Mahdi Darius Nazemroaya 11

 
Capitolo 1

LA FASE ASCENDENTE 17

1. La fine del bipolarismo 17
2. La Guerra del Golfo 18
3. L’evoluzione della strategia statunitense 22
4. La ristrutturazione della NATO 23
5. La riconversione politica ed economica dei paesi comunisti 26
6. Il ruolo di Israele 31
7. L’intervento “umanitario” in Somalia 35
8. La carneficina ruandese e lo strazio del Congo 39
9. L’interferenza nella crisi balcanica 46

 
Capitolo 2

IL PICCO 55

1. L’aggressione alla Jugoslavia 55
2. Il “Nuovo secolo americano” 62
3. 11 settembre 2001 64
4. Osama Bin Laden 69
5. L’attacco all’Afghanistan 73
6. La “grande scacchiera” centroasiatica 76

 
Capitolo 3

LA FLUTTUAZIONE 85

1. Vladimir Putin e la “resurrezione” della Russia 85
2. Conflitto d’interessi 96
3. La convergenza 98
4. La guerra all’Iraq 104
5. L’estensione dell’influenza statunitense all’Unione Europea 113
6. La Rivoluzione delle Rose 115
7. La Rivoluzione Arancione 119

 
Capitolo 4

LA FASE DISCENDENTE 123

1. La Guerra dei Cinque Giorni 123
2. Il riarmo nucleare 127
3. La contesa atomica e le relative ricadute geopolitiche 135
4. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai 152
5. L’ascesa dei giganti asiatici e la preoccupazione statunitense 155

 
Capitolo 5

VERSO NUOVI EQUILIBRI/SQUILIBRI 169

1. Gli effetti del confronto geopolitico sino-statunitense 169
2. Il riorientamento strategico della Turchia 188
3. Le rivolte arabe e il loro uso strumentale 192
4. I rapporti con Muammar Gheddafi 197
5. L’attacco alla Libia 204
6. Venti di guerra sulle roccaforti sciite 216
7. La parabola del dollaro e il ruolo della crisi economica 247
8. Gli scenari futuri 271

 
BIBLIOGRAFIA 291

 
INDICE DEI NOMI 295
 
 

Anteo Edizioni
 

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“Libia: campo di battaglia tra Occidente ed Eurasia”– di Alessandro Lattanzio, Anteo Edizioni, 2012

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La guerra di rapina contro la Libia, è solo un episodio della guerra occidentale contro l’Africa. L’aggressione e l’invasione alla Repubblica Popolare Socialista della Jamahiriya di Libia, è stata presentata quale “spontanea” rivoluzione dei “giovani democratici” desiderosi di realizzare il sogno liberale e pseudo-rivoluzionario in terra libica. Nulla è più lontano dalla verità dei fatti di una simili interpretazione, peraltro presentata da una prospettiva esclusivamente occidentale.

La Libia, il suo popolo e il suo leader Muammar Gheddafi, sono vittime dello scontro geopolitico e geostrategico che ha caratterizzato l’epoca unipolare e che sta caratterizzando questa fase di transizione verso un’epoca multipolare. Il riposizionamento degli equilibri mondiali, che vede affermarsi i giganti asiatici e latino-americani, e la rinascita della Russia, uscita dal letargo dal decennio eltsiniano, allarma le potenze occidentali, spingendone i circoli dominanti a reagire in modalità sempre più efferate e miopi, ricorrendo all’impiego di tutti quei mezzi violenti acquisiti dall’esperienza colonialista e imperialista occidentale in secoli di guerre di conquista. Contro la Libia Popolare, l’Occidente e i suoi alleati arabi reazionari, hanno scatenato tutto l’arsenale militare, spionistico, economico, diplomatico e mass-mediatico in loro possesso. I risultati sono stati la distruzione dello Stato più prospero dell’Africa, la destabilizzazione irresponsabile di tutta l’Africa sahariana, ma anche, felicemente, l’esaurimento delle capacità dell’Occidente nel poter manipolare il resto del Mondo.

 
 
INDICE

 
PREFAZIONE di Giovanni Armillotta 5

 
Capitolo 1

LA LIBIA NEL QUADRO GEOPOLITICO MONDIALE 17

1. Libia: Golpe e Geopolitica 17
2. Il ruolo dell’islamismo radical-coloniale e della sinistra brezinskiana occidentale 22
3. La Guerra contro la Libia, una guerra contro l’Africa 27
4. Gheddafi, Osama bin Ladin e i kamikaze occidentali 33

 
Capitolo 2

LE OPERAZIONI SUL TERRENO 37

1. Le forze armate della Libia 37
2. Le forze golpiste 41
3. L’aggressione alla Libia: la scintilla 43
4. Le operazioni clandestine 48
5. Le operazioni delle forze armate libiche 59
6. La genesi delle risoluzioni ONU 1970 e 1973 89
7. Le fasi dell’aggressione della NATO 94
8. Il ruolo delle forze speciali della coalizione anti-Jamahiryia: l’occupazione di Tripoli 312
9. Il Qatar, la Turchia e la Libia del CNT 317

 
Capitolo 3

LA CRISI IN LIBIA E LE SUE RIPERCUSSIONI ECONOMICO-ENERGETICHE IN ITALIA 321

 
Capitolo 4

CONCLUSIONI 329

1. 1898-2011. Dall’alba alla sirena imperialista: Odissea di una nuova era geopolitica 329
2. Dove porta l’aggressione alla Libia? 334

 
FONTI 335

 
 
Anteo Edizioni
 
 

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Ruhollah Khomeyni: lo “spirito di Dio” nel XX secolo

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Nel giugno del 1989 scomparve una delle figure più affascinanti del Novecento, l’imam Khomeyni, guida politica e spirituale della Rivoluzione islamica iraniana del 1979. Questo grande intellettuale, sapiente e gnostico, ha saputo coniugare impegno politico, mistico ed etico come pochi, attirando l’attenzione di persone di diverse culture in tutto il mondo.

Quando si chiede agli studiosi, chi sia stato il più importante personaggio politico del Novecento, le risposte, in base alle varie sensibilità, potrebbero essere molto diverse. Normalmente, i nomi delle guide politiche sono collegati a degli avvenimenti storici epocali e a dei cambiamenti sociali senza precedenti. Nel linguaggio politico, una svolta sociale, economica, politica, giuridica, culturale e spirituale senza precedenti è definita come “rivoluzione”. Quando ero un liceale, ebbi la fortuna di leggere un libro di René Guénon dal titolo suggestivo: La crisi del mondo moderno (1). La prefazione del libro era stata curata da Julius Evola, che in quell’occasione descrisse in modo esemplare il concetto di “rivoluzione”. Secondo Evola la parola “rivoluzione” può avere due significati: uno “esteriore” ed uno “nascosto”. Il primo significato è quello comunemente ritenuto valido, ovvero un “cambiamento brusco e violento della struttura politica e sociale dello Stato” (2). Ma il pensatore italiano si concentrò soprattutto sul significato “esoterico”, ovvero quello legato all’interpretazione di “rivoluzione” non in un ambito politico e “mondano”, ma spirituale, legato, per certi aspetti, alla “rivoluzione” dei corpi celesti. In questo senso, la “rivoluzione” è un percorso che inizia in un punto specifico, e dopo il compimento di un percorso ordinato e armonioso, si conclude nello stesso punto di partenza (come ad esempio, i moti di “rivoluzione” della Luna intorno alla Terra, o della Terra intorno al Sole). Quindi una “rivoluzione” che premia non il “cambiamento”, radicale o meno, ovvero una “modernizzazione”, bensì una “rivoluzione” nel solco della “tradizione”. Con questo punto di vista, una vera rivoluzione non consiste solo in un cambiamento della struttura sociale e politica, come lo sono state la Rivoluzione francese del 1789 o quella americana di poco precedente, ma soprattutto il “ritorno” ad un punto di partenza mistico e spirituale. In questo senso, l’Origine di tutto è l’Essere Primordiale, lo Spirito di Dio. Se questa è l’ottica gnostica per un’analisi completa del significato di rivoluzione, allora l’unica “vera” rivoluzione novecentesca è stata quella islamica in Iran, nel 1979. E se volessimo fare il nome di un personaggio politico che ha cambiato le sorti dell’umanità nel XX secolo, saremmo costretti a fare il nome della guida di quella rivoluzione iraniana, l’Ayatollah (3) Ruhollah (4) Khomeyni.

In questi giorni ricorre l’anniversario della sua morte, avvenuta nel giugno del 1989. L’evento funebre rappresentò uno degli spettacoli sociali e spirituali più importanti del Novecento; infatti, quando agli iraniani arrivò la notizia della morte del loro amato “imam” (5), iniziò un movimento spontaneo, da diverse zone del Paese e della capitale Tehran, di milioni di individui verso i luoghi della vita della loro guida, dalla sua umile dimora a Jamaran, nella periferia settentrionale della capitale iraniana, fino al cimitero “Beheshte Zahra”, dalla parte opposta di Tehran. Il viaggio mistico e politico dell’imam Khomeyni, almeno dal 1979, era iniziato proprio in questo cimitero, dove egli era andato, appena tornato dall’esilio all’estero, per commemorare i martiri della rivoluzione. Anche questo processo “rivoluzionario”, nel senso evoliano del termine, di ritorno al punto di partenza, dimostra la grandezza dell’Ayatollah Khomeyni. Ma egli non era solo un uomo politico, che presentando un modello spirituale, tradizionale e teocentrico aveva sconvolto il mondo bipolare di allora, basato sull’apparente contrapposizione di due ideologie moderne e laiche (se non atee) quali il capitalismo liberale e il marxismo, per certi aspetti “due facce della stessa medaglia” (6).

 

L’imam Khomeini: “hakîm” del nostro tempo

 

Spesso in Occidente si parla delle idee politiche dell’Ayatollah Khomeyni, ma si trascura il fatto che egli, prima di essere un uomo politico, era un grande gnostico, un filosofo, un giurista, un poeta e un artista. In ambito iranico, i sapienti dell’antichità erano chiamati “hakîm”; l’appellativo di hakîm (saggio) veniva concesso agli scienziati che avevano il pregio di essere dotti in diversi ambiti, non solo, ad esempio, in filosofia, teologia, giurisprudenza o nelle scienze sperimentali, ma in tutte le scienze contemporaneamente. Per esempio, Avicenna (980-1037), nativo della regione del “Grande Khorasan” (Asia centrale) e morto a Hamadan (odierno Iran occidentale), era soprannominato appunto “hakîm” perché oltre a essere un filosofo di altissimo rango era anche un noto e famoso medico (celebre il suo libro “Il Canone”, considerato all’avanguardia anche in Europa fino a tutto l’Ottocento). Dire quindi che l’imam Khomeyni sia stato un “hakîm” del nostro tempo non è un’esagerazione, visto che egli era competente in diverse scienze. Nei suoi libri e nei suoi discorsi si rintracciano infatti aspetti importanti delle sue conoscenze, anche se l’Ayatollah, per via di una grande umiltà, non amava esibire troppo il proprio sapere. La sua umiltà era una delle caratteristiche della sua grandezza. In un suo discorso disse:

“Lo giuro su Dio, io non ho ancora avuto l’onore di eseguire due rak‘at (7) di preghiera per la causa di Dio, ma tutto quello che faccio, purtroppo, è per amore del mondo”.

Una frase del genere, detta da un uomo qualunque non sarebbe nulla di clamoroso. Ma se a proferirla è un uomo colto, sapiente, mistico di livello immenso come l’imam Khomeyni, si può comprendere l’umiltà di questo “rivoluzionario”, non solo per questioni politiche, ma principalmente per la sua forza spirituale, che ha affascinato molte persone, amici e nemici, tutti concordi sull’immensità dell’”imam della comunità” (8).

 

Il grande “jihâd”

 

L’aspetto in assoluto più interessante dell’insegnamento dell’imam riguarda il fatto di coniugare l’impegno sociale e politico con l’etica e la morale. In un’epoca in cui si parla tanto di “Stato laico”, l’imam rivendicava con forza la necessità che la politica non si dividesse dall’etica, in quanto la militanza senza etica si trasforma spesso, come la storia del Novecento ci insegna, in massacri, guerre e distruzione. Ovviamente anche la religione può essere accompagnata da violenza, ma l’esperienza insegna che senza etica, lo sterminio è una cosa normale. Le guerre mondiali nel XX secolo, che hanno visto lo scontro tra ideologie “moderne” e “laiche”, hanno lasciato sul campo decine di milioni di vittime, cosa che le guerre di religione non avevano mai fatto, almeno per ciò che concerne la quantità dei morti. L’imam Khomeyni amava spesso ripetere una tradizione del profeta Muhammad:

“Torniamo vincitori da un piccolo jihâd, e ci apprestiamo a combattere un grande jihâd”. (9)

Secondo l’interpretazione dell’imam, in questa tradizione il Profeta dell’Islam ha voluto sottolineare come la guerra propriamente detta, l’impegno politico e sociale, siano cosa secondaria rispetto alla “grande guerra” che ogni essere umano deve intraprendere per controllare i propri istinti animali che lo allontanano dalla Via di Dio. Un impegno politico senza l’autocontrollo porterebbe infatti l’uomo su una via già percorsa da molti famosi “rivoluzionari” che prima di ottenere il potere si comportano in modo impeccabile, ma una volta preso il controllo della “cosa pubblica” il loro comportamento diviene addirittura peggiore dei loro predecessori. Il caso emblematico è la Rivoluzione francese, contraddistinta da grandi violenze e usurpazioni, in nome della “Dea Ragione”. I giacobini, a forza di massacrare i loro oppositori, finirono per essere più odiati del monarca dispotico che avevano in precedenza combattuto. Nel pensiero dell’imam, quindi, lo sforzo mistico per raggiungere uno stato di autocontrollo quasi totale (grande jihâd) è più importante della politica, almeno intesa in senso secolare. Più volte l’Ayatollah ha ribadito la sua totale convinzione riguardo a ciò; non solo in ambito politico, ma anche per le conoscenze scientifiche. Egli in un famoso discorso disse:

“La scienza deve essere accompagnata dall’etica; una scienza senza etica è pericolosissima. Se dovessi scegliere tra le conoscenze scientifiche senza l’etica o l’etica senza la conoscenza, sceglierei sicuramente la seconda via”.

Come non condividere una tale analisi, alla luce dei massacri compiuti per mezzo ed in nome di una scienza “moderna” che non è accompagnata da un’etica a misura d’uomo? Tale questione, sollevata da questa grande figura di “rivoluzionario” misconosciuta in Occidente, resta a tutt’oggi di fortissima attualità.

 

 

NOTE:

(1) René Guénon, La crisi del mondo moderno, (trad. it.) Edizioni Mediterranee, Roma 1972.

(2) Giuseppe Pittano, Dizionario italiano, Gulliver, Chieti 1995.

(3) Quella di Ayatollah, letteralmente “segno di Dio”, è la più alta carica della gerarchia del clero in ambito islamico sciita.

(4) Ruhollah, il nome di “battesimo” dell’Ayatollah Khomeini, vuol dire letteralmente “Spirito di Dio”, e in ambito islamico è il soprannome di Gesù Cristo.

(5) Nell’islam sciita, il concetto di “imam” (letteralmente “colui che sta avanti”) implica non solo, come in ambito sunnita, la persona che guida la preghiera congregazionale o un esperto di scienze islamiche, ma soprattutto la guida politica e spirituale della comunità dopo il profeta Muhammad, ovvero i dodici “imam immacolati” della tradizione sciita (per questo gli sciiti sono anche definiti “duodecimani”). Nel caso dell’Ayatollah Khomeyni, però, rappresenta più che altro un titolo che vuole sottolineare, da un lato, la grandezza della personalità dell’imam, dall’altro, il forte legame spirituale e affettivo che lo legava alla sua gente.

(6) Massimo Fini, Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità, Marsilio, Venezia, 2002.

(7) La “salât”, l’orazione rituale islamica, obbligatoria per i musulmani e da eseguirsi cinque volte al giorno in momenti stabiliti in base al movimento apparente del sole, è composta da un numero variabile, a seconda della preghiera, di “unità di misura” definite “rak‘at”, che a loro volta comprendono una serie prestabilita di formule e movimenti. Ad esempio la preghiera del mattino è composta da due rak‘at, quella di mezzogiorno da quattro rak‘at ecc. Dire di non aver effettuato neanche due rak‘at per la causa di Dio, vuol dire di non essere degno di un certo rango elevato. Quanta umiltà in questo grande uomo! Cosa dovremmo dire allora noi persone comuni, che non appena compiano un’azione positiva pensiamo di aver raggiunto chissà quale “stazione divina”… Non a caso un grande sapiente dell’antichità come Socrate diceva: “L’unica cosa che conosco è che non conosco nulla”.

(8) Uno dei tanti appellativi dell’Ayatollah Khomeyni (in persiano “emam-e ommat”).

(9) Gli “ahâdîth”, ovvero le tradizioni e i racconti riferiti all’”esempio virtuoso” del Profeta Muhammad, sono tra le principali fonti delle scienze islamiche in generale e del diritto islamico (“fiqh”) in particolare. Questa specifica tradizione è riferita ad una battaglia condotta dai musulmani di Medina contro i politeisti meccani, nella quale la fazione del profeta Muhammad aveva prevalso. Il Profeta vedendo molta allegria e anche un certo atteggiamento vanaglorioso da parte dei suoi soldati, pronunciò questa frase per far capire che la guerra contro i nemici è nulla in confronto alla battaglia per l’autocontrollo, quella contro il proprio ego. Sul concetto di “jihâd” poi andrebbero dette molte altre cose, ma qui bisogna sottolineare come spesso in Occidente vi sia una traduzione sbagliata di questo termine. Letteralmente “jihâd” vuol dire “sforzo”, inteso come “sforzo per la causa di Dio”; qualsiasi opera che venga posta in essere con l’intento di compiacere il creatore è “jihâd”, dunque non solo la guerra contro un ipotetico nemico della comunità islamica che abbia intrapreso un’azione militare contro i musulmani, ma anche e soprattutto questioni come scrivere un libro per compiacere il Creatore, giocare con i propri figli per amore del Compassionevole, parlare gentilmente con le persone come segno di devozione all’Altissimo, sono tutte delle forme di jihâd. Anzi, di “grande jihad”.

 

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“Il Turco a Vienna… e altre cose. Conversazione con Franco Cardini”. Martedì 19 Giugno, ore 21, Modena

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Il Turco a Vienna… e altre cose. Conversazione con Franco Cardini“. Martedì 19 Giugno, ore 21, p.tta Redecocca 1, Modena.

 
 
Interverranno:

Prof. Franco Cardini, storico, saggista, autore del libro Il Turco a Vienna, sull’ultimo assalto turco all’Europa del 1683

Elisabeth Mantovani, presidente dell’associazione La Rose Noire

Stefano Vernole, redattore di Eurasia, rivista di Studi Geopolitici

Modera: Luca Tadolini

Ingresso libero
 

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L’Egitto e le incognite del “ballottaggio”

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Il popolo egiziano è ancora traumatizzato dall’annuncio dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali. Si rifiuta di accettare il risultato che vede Ahmad Shafiq, l’ultimo Premier del deposto Hosni Mubarak, sfidare al ballottaggio il candidato della Fratellanza Musulmana, Mohamed Mursi. Non è per questo risultato che molti egiziani si erano battuti. Il Paese è invaso dall’amarezza e Piazza Tahrir si riempie di nuovo di migliaia di manifestanti per impedire il ritorno alla linea politica del passato.

 

L’Egitto deve attendere ancora per conoscere il nome del nuovo presidente: il primo turno delle elezioni infatti si è concluso con il 24,8% dei voti per Mohamed Mursi, il 23,7% per Ahmed Shafiq e il 20% per il nasseriano Hamdin Sabbahi. Delusione, invece, per il riformista islamico Abdel Moneim Abul Fotouh e l’ex segretario della Lega Araba Amr Moussa, i favoriti della vigilia, arrivati rispettivamente quarto e quinto. In modo altrettanto sorprendente la partecipazione ad una consultazione considerata storica è stata piuttosto bassa. Alle urne si sono recati meno del 50% degli aventi diritto. Ora si teme che per il secondo turno ci sia un ulteriore crollo. Tra gli egiziani è sempre piú diffuso il sentimento di essere stati privati della propria “rivoluzione”. Certamente Ahmed Shafiq e Mohammed Mursi sembrano rappresentare alla perfezione ciò che proprio le frange giovanili protagonisti della rivolta non avrebbero ipotizzato, e soprattutto desiderato, come nuovo leader del paese.

 

Sul fronte islamico, Mohammed Mursi intende portare i Fratelli Musulmani, che controllano già Parlamento e Costituente, anche alla guida della Presidenza della Repubblica. Ingegnere, per molto tempo negli Stati Uniti, ha conosciuto due volte il carcere, si è trovato quasi per caso a rappresentare i Fratelli Musulmani dopo l’eliminazione di Khaiter al-Shater da cui ha ereditato l’intera campagna elettorale: dal “brand” – il Rinascimento islamico – alla piattaforma programmatica che prevede risanamento della Pubblica Amministrazione, investimenti sui servizi sociali e maggiore sicurezza. Agli elettori ripete che il Paese si libererà finalmente dal giogo militare, che non c’è niente al di sopra della Costituzione e che il budget dell’esercito sarà rimesso nelle mani del Parlamento.

 

Dall’altra parte, Ahmed Shafiq rappresenta una brutta copia di Mubarak. Entrambi erano infatti comandanti dell’Aviazione e una sua vittoria servirebbe a prolungare la tradizione che vede un militare alla guida del Paese. Da sempre legato al potere, nel 2002 Mubarak inventò per lui un ministero ad hoc: il dicastero per l’Aviazione civile, alla cui guida Shafiq dimostrò tutta la sua efficienza. Avviò la ristrutturazione della compagnia di bandiera Egypt Air e fece piazza pulita dei vertici. Scommise, poi, sulla vocazione turistica dell’Egitto e nel 1998 trasformò l’aeroporto del Cairo in uno scalo internazionale. In pochi anni, insomma, da militare Shafiq divenne il businessman che aveva aperto agli investimenti della Banca mondiale, un ministro gradito al libero mercato e alla classe dirigente internazionale. Nominato Primo ministro negli ultimi giorni del regime di Mubarak e dimessosi un mese dopo, Ahmed Shafiq è il prodotto del sistema politico-militare egiziano. Una macchia indelebile per i protagonisti della rivolta che ha portato alla deposizione dell’ex presidente. La famigerata “battaglia del cammello” durante la quale teppisti mandati dal regime invasero Tahrir a dorso di cavalli e cammelli provocando più di dieci morti e decine di feriti avvenne proprio durante il suo mandato. Riammesso al voto all’ultimo momento è stato contestato dai rivoluzionari e preso a scarpate in faccia all’uscita da un seggio dai familiari delle vittime della repressione. A spingerlo verso l’alto sono stati, oltre a quelli dei cristiani, i voti dei felool (i nostalgici del passato regime) e di chi si dichiara stanco dell’instabilità post-rivoluzionaria.

 

Tuttavia molti interrogativi rimangono sull’ammissibilità della candidatura di Shafiq alle elezioni. Il mese scorso, il Parlamento ha approvato una legge per vietare ad ex alti esponenti del regime di candidarsi a qualsivoglia carica istituzionale. La legge inizialmente mirata ad escludere Omar Suleiman, ex capo dei servizi segreti di Mubarak, avrebbe dovuto essere applicata anche a Shafiq. Nonostante ciò, il Presidente della Commissione elettorale ha rinviato la legge alla Corte costituzionale per determinarne la costituzionalità e, nel frattempo, ha permesso a Shafiq di continuare la sua corsa. L’11 giugno, se la Corte dovesse dare il via libera al testo, metterebbe la parola “fine” alle velleità di Shafiq. Tuttavia stanno venendo alla luce alcuni fatti che svelerebbero l’esistenza di un’operazione estremamente sofisticata, che avrebbe assicurato a Shafiq i voti sufficienti per andare al ballottaggio. In primo luogo, l’incredibile aumento del numero complessivo degli aventi diritto al voto in tre mesi. In Egitto, ogni persona viene automaticamente aggiunta alle liste degli elettori dopo aver raggiunto l’età di diciotto anni. Dopo le elezioni legislative il numero totale degli elettori iscritti annunciato pubblicamente era di 46.484.954. Tuttavia, dopo le elezioni presidenziali il capo della Commissione elettorale ha annunciato che il numero totale dei votanti registrati era di 50.996.746, con un aumento incredibile di 4.511.792 (o oltre l’80 per cento del totale dei voti ricevuti da Shafiq).

 

Eppure sono numerose le irregolarità che hanno caratterizzato l’intero processo elettorale. Manipolare la popolazione egiziana, il cui 40% vive sotto la soglia di povertà e quasi la metà è illetterata, non è molto difficile. Basta dare loro cibo e soldi per convincerli a votare per qualcuno. Pratica diffusa e molto usata da tutti i candidati. L’organizzazione che ha monitorato le elezioni presidenziali (“Shayfeen”: in italiano, “Ti stiamo guardando”) ha raccolto e denunciato numerose infrazioni. Ad esempio sono stati fotografati molti autobus ricoperti dalle immagini di Mursi pagati per raccogliere le persone e portarle a votare, e sono stati segnalati ritardi nell’apertura dei seggi che in alcuni casi sono stati chiusi per un paio d’ore durante la giornata. Per concludere, dopo la fine del primo giorno le urne sono state lasciate nei seggi elettorali fino al mattino successivo e l’esercito ha ordinato l’evacuazione forzata di tutti i distretti, nonostante le proteste degli osservatori.

 

Ma una delle maggiori ombre che copre di ambiguità il processo elettorale è il fatto che gli elettori sono andati ad eleggere un presidente senza una chiara idea di quale sarà l’autorità che effettivamente dovrà relazionarsi con i militari, il parlamento e le altre istituzioni dello Stato, e quindi senza sapere se il candidato che vincerà avrà i poteri sufficienti per implementare il portafoglio su cui ha basato la campagna elettorale. I poteri del prossimo capo dello Stato non sono stati definiti, la Costituzione in vigore sotto Mubarak è stata sospesa e la stesura del nuovo testo è ferma. I generali insistono dicendo che si faranno da parte il 1° luglio, ma la maggior parte degli egiziani non si aspetta certo che rinuncino ai privilegi di cui hanno goduto per decenni. A prescindere dai poteri del nuovo capo dello Stato, l’Esercito manterrà il proprio controllo sulla politica estera e tenterà di proteggere l’accordo di pace con Israele che consente di ricevere finanziamenti per il settore militare da parte degli Stati Uniti.

 

Ora il Paese si trova a un bivio. Da una parte l’incognita di Mursi, un politico apparentemente debole che però si fa portavoce di idee chiare: “Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge”, recita lo slogan della Fratellanza. Dall’altra, con Shafiq, c’è l’incubo di un ritorno al passato e di affidare il Paese all’“uomo cerniera” tra militari e vecchio regime che in più di un’occasione ha dichiarato che una volta al potere non esiterà ad usare l’apparato di sicurezza e l’Esercito per ristabilire l’ordine e porre fine alle proteste Il problema, però, è che, a prescindere dal vincitore, e nonostante le promesse fatte dai militari di lasciare il potere, l’Esercito rimarrà comunque l’interlocutore principale nell’amministrazione dell’Egitto. Qualora dovesse essere Mursi a vincere, l’Esercito, infatti, tenendo saldamente in mano la politica estera, lascerebbe mano libera alla Fratellanza in patria. I liberali e gli egiziani “moderati” temono che gli islamisti vogliano mettere il loro marchio al paese, imponendo con la forza i loro ideali religiosi. Mursi nel corso della campagna elettorale non ha definito in maniera concreta cosa vorrebbe dire l’applicazione della sharî‘a qualora dovesse essere lui a portare a casa la vittoria. Di certo, potrebbero essere varate leggi più restrittive e una società impostata in maniera rigida potrebbe avere effetti negativi anche sul turismo, uno dei punti di forza nel Pil del Cairo. Shafiq, invece, si professa per un Egitto più “laico”, ma è considerato il capo della controrivoluzione. Gli attivisti hanno iniziato a prendere in considerazione una terza alternativa: il boicottaggio. Chiedendosi quale sia la validità di tutto il processo così come è stato condotto finora e opponendosi all’imposizione di dover scegliere “il male minore” per la nuova guida del Paese, alcuni segmenti della gioventù rivoluzionaria stanno invitando gli elettori a boicottare il ballottaggio al fine di abbassare l’affluenza e mettere in discussione la legittimazione popolare del presidente eletto.

 

C’è però chi invita a riflettere sui risultati delle elezioni in modo diverso. I candidati vicini al movimento pro-rivoluzione hanno ricevuto quasi due terzi dei voti (24% Mursi, 20% Sabahi, 18% Abol Fotouh, altri candidati il 2%). Dall’altra parte, i resti dell’ ex-regime hanno ricevuto meno di un terzo (23% Shafiq e 10% Moussa). Se i candidati pro-rivoluzione si fossero coalizzati attorno a un unico candidato avrebbero schiacciato l’opposizione al primo turno. Ma la profonda sfiducia generata durante gran parte dello scorso anno ha reso questo scenario impossibile. Inoltre un’altra importante considerazione da fare è l’enorme calo di sostegno che ha subito la Fratellanza in soli quattro mesi. Mentre alle presidenziali i candidati avevano ricevuto quasi 11 milioni di voti, il loro candidato alla presidenza ne ha guadagnati solo 5,7 milioni. Anche se questa perdita è direttamente correlata ai deludenti risultati del Parlamento e all’atteggiamento sprezzante nei confronti dei loro partner della “rivoluzione”, ha inviato un messaggio forte alla leadership del gruppo.

 

Per il secondo turno delle elezioni presidenziali, la maggior parte dei voti di Moussa potrebbe finire nella colonna di Shafiq, mentre la maggioranza dei voti Abol Fotouh potrebbe andare in favore di Mursi. I voti cruciali del nazionalista di sinistra Sabbahi sono probabilmente in palio. Questo candidato molto amato dai giovani si è finora rifiutato di avallare Mursi e molti dei suoi sostenitori sono scesi in strada respingendo entrambi i candidati. Piazza Tahrir è stata di nuovo occupata da migliaia di manifestanti che vedono le loro speranze e aspirazioni in pericolo. Le proteste contro Ahmed Shafiq hanno raggiunto l’apice quando alcuni manifestanti hanno incendiato il suo quartier generale al Cairo e sono poi continuate in seguito alla notizia della sentenza riguardante Mubarak che lo assolveva, assieme ai figli, dall’accusa di corruzione.

 

In questi giorni Mursi ha dato inizio ai negoziati con i giovani della piazza offrendo, in cambio del loro sostegno, l’impegno a governare con un Consiglio presidenziale che comprenda tutte le tendenze ideologiche, a dare garanzie su un governo democratico, sulla libertà di espressione, sui diritti delle donne e della comunità cristiana, e la promessa di non candidarsi per un secondo mandato. In definitiva questo momento critico potrebbe essere una benedizione sotto mentite spoglie, se colta correttamente dai Fratelli Musulmani e dal resto dei gruppi rivoluzionari. È quindi il momento in cui le forze che si oppongono ad un ritorno al passato dovrebbero ritrovare l’unità perduta in nome soprattutto del futuro dell’Egitto, che oggi più che mai ha bisogno di uscire da questo lungo e tormentato periodo di transizione e ricominciare la sua storia.

 
 
* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).

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L’opposizione siriana crea la sede estiva a Miami

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Jean Guy Allard, Rete Voltaire, 29 Maggio 2012, Havana (Cuba)

La CIA sta attuando un dispositivo per sabotare il piano Annan e qualsiasi tentativo di pace in Siria. Tornando ai suoi metodi da guerra fredda, quando ha creato gruppi sovversivi nel blocco orientale per infiltrarsi nei fronti di combattimento internazionali, la CIA ha organizzato un seminario di formazione congiunto a Miami per i membri delle opposizioni armate cubana e siriana.

 

 
Utilizzando la comunità cubano-americana che agisce sotto il loro patrocinio a Miami, così come gli oppositori siriani che vivono sul loro territorio, i servizi segreti statunitensi mirano ad associare Cuba ai disordini in corso in Siria, secondo un dispaccio dell’agenzia spagnola EFE che “svela” che i “dissidenti siriani e cubani a Miami hanno creato un fronte per combattere Castro e al-Assad“.

Le resistenze siriana e cubana hanno creato un fronte unito per la libertà e la democrazia di entrambi i popoli in lotta contro ‘regimi dittatoriali“, ha riferito il corrispondente dell’agenzia di Madrid a Miami, considerata la base di tutte le trame anti-cubane degli Stati Uniti.

I rappresentanti della “principale organizzazione dell’opposizione siriana” e membri della cosiddetta Assemblea della Resistenza cubana (CRA) di Miami, hanno firmato un “accordo per coordinare i loro sforzi” e dare un’immagine di instabilità di Cuba.

La Siria è finita in una spirale di violenza dal 15 marzo 2011, quando migliaia di persone sono scese per le strade“, ha aggiunto EFE.

“Questo offre una straordinaria opportunità: un fronte unito che riavvicina i popoli di Siria e Cuba per combattere insieme per la libertà e la democrazia”, ha detto Silvia Iriondo, “presidente” di Madri e donne contro la repressione (MAR Por Cuba), nella sua intervista con il corrispondente di EFE a Miami.

Silvia Iriondo, il cui vero nome è Silvia Goudie, è la figlia di un mercenario che ha preso parte alla fallita invasione della Baia dei Porci. Vive a Miami, dove fa vivere le sue bugie e il suo “fantomatico” MAR Por Cuba, gentilmente finanziato dall’USAID. Quando il piccolo cubano di 6 anni Elian Gonzalez venne rapito dai suoi parenti a Miami, questa signora e i membri della sua organizzazione, dichiararono che avrebbero preferito vederlo morire piuttosto che restituirlo alla famiglia a Cuba.

Il Dipartimento di Stato e le sue “controllate” l’hanno sempre impiegata nel loro “servizio estero” partecipando alle loro riunioni contro Cuba, Europa e America Latina.

Nel marzo 2004, Robert Ménard, ex segretario generale di Reporter senza frontiere, e Frank “Paquito” Calzon, ufficiale della CIA e direttore del Centro per una Cuba Libera (CFC), apparvero con lei in pubblico, durante un incontro con i parlamentari europei organizzato dagli amici dell’ex primo ministro spagnolo, Jose Maria Aznar presso l’Unione Europea.

Robert Ménard è diventato famoso dopo aver riempito i suoi conti bancari “cubani” in Virginia con i soldi dell’USAID, mentre Felipe Sixto, il braccio destro di Calzon al CFC, veniva arrestato e condannato per essersi appropriato di mezzo milione di dollari.

Nel 2007, la International Society for Human Rights, una organizzazione apertamente anticomunista gestita dalla CIA, aveva organizzato un seminario sul “problema cubano” presso il Dresden Bank Communications Center di Francoforte, Germania, invitando al podio Silvia Iriondo assieme a Calzon, Pedro V. Roig (direttore dell’Office of Cuba Broadcasting e responsabile di Radio Martí e TV Martí, allora sotto inchiesta per frode), il “Comandante traditore”, Hubert Matos, legato al traffico di droga, e Angel Francisco de Fana Serrano, membro di Alpha 66 (arrestato in California nel 1995, per possesso di un arsenale di armi da usare in un attacco terroristico contro Cuba).

Nel novembre 2009, Silvia Iriondo insieme al capo di UnoAmérica, una organizzazione fascista ideologicamente affine all’Operazione Condor, e Alejandro Peña Esclusa, attualmente sotto processo a Caracas per terrorismo, erano nel gruppo di “osservatori” che aveva legittimato le elezioni generali tenute sotto la dittatura di Roberto Micheletti in Honduras.

In quell’occasione, fu di nuovo gomito a gomito con Matos e altre “figure” della mafia anticubana, come il milionario “anti-Castrista” Orlando Gutierrez Boronat che condivide con la sua camerata le fanfare su “Cuba-Siria”.

Un destinatario, come Iriondo, di generose iniezioni di dollari dell’USAID, Gutierrez si è auto-incoronato Segretario Nazionale del Cuban Democratic Directorate (Directorio Democrático Cubano), ed è stato anche accusato, da alcuni, di utilizzare i sussidi per viaggiare in tutto il mondo.

Salutato da EFE, un’agenzia di stampa fondata dal nonno franchista di Aznar, questo “accordo” non è il primo tentativo di “associare” Cuba alla Siria, in cui Iriondo è stata coinvolta.

Poche settimane prima, questa “attivista” al soldo del Dipartimento di Stato ha partecipato a un briefing al Congresso, organizzato dalla cosiddetta Association of Cuban-American lawyers (CABA), incentrata sul tema “La primavera araba a Cuba”, in presenza di legislatori mafiosi come Mario Diaz-Balart, Ileana Ros-Lehtinen e David Rivera.
Tra i firmatari dell'”accordo” acclamato da EFE, vi appare anche Horacio Garcia, del Council for the Freedom of Cuba (CLC) ed ex direttore della Cuban American National Foundation (FNCA). Va notato che questo signore è stato pubblicamente indicato dal terrorista di origine cubana Luis Posada Carriles come uno dei principali “finanziatori” delle sue attività criminali.

Per la “parte siriana”, EFE cita Mohamed Kawam, della cosiddetta Task force siriana di emergenza, e Niman Shukairy, affiliato all’United for a Free Siria – rispettivamente medico e dentista – che sembrano avere più il gusto per il denaro facile piuttosto che nell’esercitare la loro professione. Due attivisti siriani residenti negli Stati Uniti, le cui posizioni di destra gli hanno permesso di essere strettamente associata alla propaganda del dipartimento di Stato e ai meccanismi di destabilizzazione.

 
Jean Guy Allard

 

Dichiarazione congiunta dell’accordo cubano-siriano

Noi, cubani e siriani, nella resistenza contro le tirannie che ci privano dei nostri diritti inalienabili datici da Dio, proclamiamo: che i diritti umani e la dignità sono universali e intrinseci alla condizione umana, e che tutti gli esseri umani sono creati uguali in obbedienza allo stesso; che in difesa di questi diritti, la Resistenza cubana e la Rivoluzione siriana decidono di unificare le nostre lotte al fine di accelerare l’ora della liberazione, quindi:

● La Resistenza cubana riconosce la Rivoluzione siriana come una legittima espressione dei più alti obiettivi e ideali del popolo siriano;
● La rivoluzione siriana riconosce l’Accordo per la Democrazia come espressione legittima dei più alti obiettivi e ideali del popolo cubano;
● La Resistenza cubana si unisce a quelle nazioni che hanno riconosciuto la Rivoluzione siriana come legittimo rappresentante del popolo siriano;
● La Rivoluzione siriana adotta la Risoluzione di Vilnius del Forum parlamentare della Comunità delle Democrazie nel riconoscere la resistenza cubana come legittimo rappresentante del popolo cubano;

Pertanto, con tale autorità morale, la Resistenza cubana e la Rivoluzione siriana di comune accordo:

● coordinano tutti i nostri sforzi politici, diplomatici, logistici e umanitaria nel perseguire la liberazione di Cuba e Siria;
● costituiscono un Fronte Unito per la libertà e la democrazia;

Pertanto, la Resistenza cubana e la Rivoluzione siriana dichiarano congiuntamente: Il popolo vuole il rovesciamento dei regimi dittatoriali di Assad e di Castro.

Firmato al Biltmore Hotel di Coral Gables questo 8 maggio 2012.

 
 
Per l’Assemblea della Resistenza cubana [1]: Bertha Antunez, Laida Carro Raul Garcia, Luis Gonzalez Infante, Orlando Gutierrez Boronat, Sylvia Iriondo
Per la Rivoluzione siriana: Khaled Saleh (Commissione generale per la rivoluzione), Mohamed Kawam (Syrian Emergency Task Force – SETF), Yahia Basha (Uniti per una Siria libera – UFS), Bashar Lufti (American Syrian Public Affairs Committee – (AMSPAC) , Imad Jandali (Syrian American Council – SAC), Maher Nana (Syrian Expatriates Organization – SSO e Syrian Support Group – SSG).


[1] L’ACR include Movimiento Feminista por los Derechos Civiles Rosa Parks, Coalición de Mujeres Cubano Americanas (Coalition of Cuban American Women), Proyecto Pro Cambio, Jóvenes Cubanos en Acción (Cuban Youth in Action), Presidio Político Histórico “Casa del Preso”, Directorio Democrático Cubano (Cuban Democratic Directorate), and MAR por Cuba (Mothers Against Repression).


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Chavez si congratula con la Russia per la posizione sulla Siria

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Il Presidente venezuelano Hugo Chavez ha manifestato il suo compiacimento per la posizione della Russia sulla crisi siriana, accusando la Lega Araba di scendere a patti con gli Stati Uniti in questo conflitto così come era già avvenuto l’anno scorso nel caso della guerra libica.

Chavez ha dichiarato in un’intervista telefonica diffusa dalla televisione di Stato venezuelana: “Fortunatamente la Russia ha assunto una posizione ferma contro l’uso della forza nei confronti della Siria”, aggiungendo che “in America Latina perturbazioni del genere non possono prodursi”.

Ha poi proseguito: “La Lega Araba adotta e difende la posizione degli Stati Uniti al punto da richiedere un attacco contro la Siria, una cosa del genere non può accadere in America Latina, dove è in corso un processo rivoluzionario”.

Al-manar

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La fortuna di Heidegger in Oriente

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“Un tempo l’Asiatico portò tra i Greci un oscuro fuoco ed essi, con la loro poesia e il loro pensiero, ne composero la natura fiammeggiante disponendola in una forma dotata dichiarezza e di misura”.     
                       
M. Heidegger, Aufenthalte
 

 
 

La fortuna di Heidegger in Iran

Nel 1977 Hans Georg Gadamer notava come Was ist Metaphysik?, la prolusione tenuta da Heidegger a Friburgo in Brisgovia nel 1929, avesse avuto una vasta risonanza fuori dalla Germania e come il pensiero heideggeriano fosse rapidamente penetrato in aree culturali ascrivibili all’Oriente. “È assai rivelativo – scriveva Gadamer – che siano state tanto immediate le traduzioni in giapponese e persino in turco, in lingue cioè che non rientrano nell’area linguistica dell’Europa cristiana. Sembra pertanto che il tentativo heideggeriano di pensare oltre la metafisica abbia riscontrato una precipua disponibilità alla sua ricezione proprio dove la metafisica greco-cristiana non orientava tutto il pensiero come suo sfondo naturale”1.

Tre anni più tardi un ex allievo persiano di Heidegger, Ahmed Fardid (1909-1994), diventava l’elemento di spicco di un organismo fondato dall’Imam Khomeyni, il Consiglio Supremo per la Rivoluzione Culturale Islamica, e costituiva il punto di riferimento di un gruppo di intellettuali che si richiamava esplicitamente al pensiero heideggeriano e si contrapponeva al gruppo dei “popperiani”.

“Gli ‘heideggeriani’ – si legge nell’articolo di un loro avversario – si erano proposti un obiettivo essenziale: la denuncia della democrazia in ogni sua forma, in quanto del tutto incompatibile con l’Islam e con la filosofia. Cercavano di dimostrare che Socrate era stato giustiziato perché avversario della democrazia e sostenevano che l’ordinamento politico difeso dal suo discepolo Platone era antesignano del governo islamico. (…) Fino al 1989 gli ‘heideggeriani’ furono la forza filosofica dominante nel sistema creato da Khomeini. Il primo ministro di allora, Mir Hussein Musavi, e il giudice supremo Abdul Kerim Erdebili (…) appartenevano entrambi al gruppo degli ‘heideggeriani’. Per un breve periodo i ‘popperiani’ furono in grado di invertire parzialmente la rotta del potere, ma la loro sorte fu segnata quando la presidenza della Repubblica Islamica venne conquistata da Mahmud Ahmadinejad. Il nuovo presidente era infatti un attivo seguace di Fardid e di Heidegger”2.

La fortuna di Heidegger nella Repubblica Islamica dell’Iran venne ufficializzata dal convegno internazionale organizzato nel 2005 a Teheran dall’Istituto Iraniano di Filosofia e dall’Ambasciata della Confederazione Elvetica sul tema “Heidegger e il futuro della filosofia in Oriente e in Occidente”. Il prof. Reza Davari-Ardakani, un ex allievo di Ahmed Fardid diventato presidente dell’Accademia delle Scienze, espose i risultati dei suoi studi sul pensiero di Heidegger. Il prof. Shahram Pazouki, che oltre ad aver tenuto due corsi su Heidegger aveva assegnato tesi di dottorato su “Dio nel pensiero di Heidegger” e sulla “Filosofia dell’arte di Heidegger”, stabilì un confronto fra Sohrawardi e il filosofo tedesco, indicando la gnosi islamica e la filosofia di Heidegger come i mezzi ideali per la comunicazione spirituale tra l’Asia e l’Europa. Benché attestato su posizioni distanti da quelle degli relatori precedenti, il prof. Bijan Karimi riconobbe l’importanza fondamentale del pensiero heideggeriano dell’essere nel mantener viva la dimensione del sacro3.

Dell’attuale situazione degli studi filosofici in Iran si è occupato anche Jürgen Habermas, che l’ha riassunta in questi termini: “Davari-Ardakani è oggi presidente dell’Accademia delle Scienze e passa per essere uno dei ‘postmoderni’. Questi hanno assunto innanzitutto l’analisi heideggeriana dell’ ‘essenza della tecnica’ e la utilizzano come la critica più coerente della modernità. Suo contraltare è Abdul Kerim Sorus, che difende – in quanto ‘popperiano’ – una divisione cognitiva tra religione e scienza, anche se personalmente tende a identificarsi con una certa corrente mistica islamica. Davari è un difensore filosofico dell’ortodossia sciita, mentre Sorus, come critico, ha già perso molta della sua pur scarsa influenza”4.

L’interesse manifestato dall’intellettualità iraniana nei confronti di Heidegger può trovare una spiegazione in ciò che dice Henry Corbin, studioso di Sohravardi e traduttore francese di Was ist Metaphysik?5, circa le corrispondenze esistenti fra la teosofia islamica e l’analitica heideggeriana. “Quello che cercavo in Heidegger, quello che ho compreso grazie a Heidegger, è la stessa cosa che ho cercata e trovata nella metafisica islamico-iraniana, in alcuni grandi nomi (…) Non molto tempo fa Denis de Rougemont ricordava, con un certo umorismo, che all’epoca della nostra gioventù aveva constatato che la mia copia di Essere e tempo recava sul margine numerose glosse in arabo. Credo che per me sarebbe stato molto più arduo tradurre il lessico di un Sohravardi, di un Ibn ‘Arabi, di un Molla Sadra Shirazi, se prima non mi fossi impegnato nella traduzione dell’inaudito lessico tedesco di Heidegger. Kashf al-mahjûb significa esattamente ‘disvelamento di ciò che è occulto’. Pensiamo a tutto quello che Heidegger ha detto circa il concetto di aletheia6.

Ma questa analogia non è la sola che possa essere citata. Lo stesso Corbin ne sottintende un’altra dello stesso genere allorché, avvalendosi di una terminologia heideggeriana, ci ricorda che “il passaggio dall’essere (esse) all’ente (ens), i teosofi islamici lo concepiscono come il porre l’essere all’imperativo (KN, Esto). È in forza dell’imperativo Esto che l’ente è investito dell’atto di essere7.

Osiamo allora abbozzare altre corrispondenze: per esempio, quella che si può intravedere fra l’Andenken, la “rimemorazione” finalizzata a mantener vivo il problema dell’essere, e il dhikr, la “rimemorazione” rituale cui il sufismo assegna il compito di attualizzare la presenza divina nell’individuo.

Così l’Ereignis, l'”evento” che si configura come l’Essere stesso in quanto tempo originario e costituisce perciò lo spazio di un nuovo apparire divino, viene ad assumere le dimensioni di una realtà ierostorica, individuabile nel momento della Rivelazione o in corrispondenza della parusia del Mahdi o comunque su uno sfondo escatologico.

O ancora: l’essere-per-la-morte, la decisione anticipatrice in cui viviamo la morte come la possibilità più incondizionata e insuperabile, non trova un parallelo islamico nel hadîth profetico riportato da As-Samnânî  “morite prima di morire” (mûtû qabla an tamûtu)?

 

 

Heidegger e l’Estremo Oriente

L’Oriente islamico non è la sola area culturale dell’Asia in cui il pensiero di Heidegger ha suscitato interesse. Non è un caso che Unterwegs zur Sprache8 cominci con un colloquio tra l’Autore e un Giapponese buddhista, Tomio Tezuka: in Giappone, dove Heidegger è il filosofo europeo più tradotto e dove sono stati affrontati temi quali “le religioni nel pensiero di Heidegger”9 o “Heidegger e il buddhismo”10, le prime pubblicazioni sul suo pensiero risalgono agli anni Venti del secolo scorso11, ossia al periodo in cui i corsi del filosofo a Friburgo e a Marburgo cominciarono ad essere frequentati da studiosi buddhisti giapponesi. Tra questi, a suscitare l’interesse di Heidegger per il Giappone pare sia stato il Barone Shûzô Kuki (1888-1941), “un pensatore che riveste nel panorama filosofico giapponese ed europeo di questo secolo una singolare importanza”12; tornato in patria, Kuki tenne corsi su Heidegger presso l’Università Imperiale di Kyôto.

I contatti di Heidegger col Giappone proseguirono dopo la guerra: nel 1953 egli conobbe personalmente Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966), il noto studioso e divulgatore del buddhismo zen, del quale aveva letto i pochi libri accessibili. “Se comprendo correttamente quest’uomo, – aveva detto di lui – questo è quanto io ho cercato di dire in tutti i miei scritti”13. Da parte sua, Suzuki rievocò così l’incontro avuto con Heidegger: “Il tema principale del nostro colloquio è stato il pensiero nel suo rapporto con l’essere. (…) ho detto che l’essere è là dove l’uomo, che medita l’essere, avverte se stesso, senza però separare sé dall’essere (…) ho aggiunto che nel Buddhismo Zen il luogo dell’essere è mostrato evitando parole o segni grafici, poiché il tentativo di parlarne finisce inevitabilmente in una contraddizione”14.

Nel 1954 ebbe luogo il colloquio con Tomio Tezuka (1903-1983), traduttore, oltre che di Goethe, Hölderlin, Rilke e Nietzsche, anche di alcuni testi di Heidegger. Dopo essere stato sollecitato a chiarire numerose questioni relative al vocabolario giapponese, Tezuka chiese a Heidegger quale fosse il suo parere circa il significato attuale del cristianesimo per l’Europa. Il filosofo definì il cristianesimo “imborghesito”, espressione di “religiosità convenzionale” e per lo più privo di una “fede viva”15.

Nel 1958 Heidegger tenne all’Università di Friburgo un seminario che vide la partecipazione di Hôseki Shin’ichi Hisamatsu (1889-1980), monaco zen di scuola rinzai e maestro di calligrafia16. Dopo che Heidegger ebbe chiesto a Hisamatsu di illustrare la nozione giapponese di arte e la relazione fra arte e buddhismo zen, ebbe luogo un dialogo sul carattere dell’opera d’arte e sulla sua origine, che Hisamatsu attribuì al libero movimento del non-ente (nicht-Seiende). Heidegger concluse il seminario riproponendo il celebre kôan del Maestro Hakuin Ekaku (1686-1769): “Ascolta il suono del battito di una sola mano!”17.

L’interesse di Heidegger per lo Zen e la consonanza esistente fra il suo pensiero e questa forma di buddhismo sono state riassunte da uno studioso nepalese nei termini seguenti: “Il disinteresse per ciò che è ‘rituale’ e l’attenzione data allo spirito da parte dello Zen potrebbero essere considerati equivalenti al rifiuto di Heidegger della struttura filosofica convenzionale delle nozioni, dei termini e delle categorie classiche in favore di un ‘filosofare vero'”18.

Nel 1963 ebbe luogo uno scambio di lettere tra Heidegger e Takehiko Kojima, direttore di un’istituzione filosofica giapponese. In una lettera aperta pubblicata su un giornale di Tokyo, Kojima si riferiva alla conferenza di Heidegger sull’era dell’atomo19 considerandola un discorso rivolto ai Giapponesi stessi. Con l’occidentalizzazione, proseguiva Kojima, è scesa sul Giappone quella notte che Kierkegaard e Nietzsche avevano già vista incombere sull’Europa. “L’unica cosa a cui possiamo credere – concludeva – è una parola tale che, precorrendo il mattino del mondo, del quale non possiamo sapere in che momento arriverà, sia in grado di scendere in questa lunga notte. Possa una tale parola sempre di nuovo giungerci vicino, richiamare il nostro passato e risuonare nel futuro”20. Nella sua risposta, prendendo atto del dominio mondiale che la scienza moderna assicura all’Occidente (“ovunque regna lo stellen che provoca, assicura e calcola”), Heidegger affermava l’insufficienza del pensiero occidentale di fronte al problema posto dalla potenza dello stellen. Affermava poi che il pericolo più grande non consiste tanto nella “perdita di umanità” denunciata da Kojima, quanto nell’ostacolo che impedisce all’uomo di diventare ciò che ancora non ha potuto essere. Infine enunciava la necessità di un “passo indietro” che consentisse di meditare sulla potenza dello stellen; ma un tale meditare, concludeva, “non può più compiersi attraverso la filosofia occidental-europea finora esistente, ma neppure senza di essa, cioè senza che la sua tradizione, fatta propria in modo rinnovato, venga impiegata su una via appropriata”21.

Nel 1964 avvenne l’incontro di Heidegger col monaco buddhista Bikkhu Maha Mani, docente di filosofia all’Università di Bangkok, che era venuto in Europa per conto della Radio tailandese. “Convinto sostenitore di un uso misurato della tecnologia e dei mass media come strumenti educativi, in Germania aveva voluto incontrare Heidegger proprio per confrontarsi sul problema della tecnica”22. Nel colloquio privato che ebbe luogo fra i due il giorno prima che venisse registrato un loro dialogo sul ruolo della religione, destinato ad essere trasmesso da un’emittente televisiva di Baden-Baden, Heidegger parlò di “abbandono” e di “apertura al mistero” e domandò al suo ospite che significato avesse, per l’Orientale, la meditazione. “Il monaco risponde del tutto semplicemente: ‘Raccogliersi’. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde] se stesso. L”io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione [Erfüllung]. Heidegger ha compreso e dice: ‘Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto’. Ancora una volta il monaco ripete: ‘Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo’”23.

Non diverse le parole del professor Tezuka: “Noi in Giappone siamo stati in grado di intendere subito la conferenza Was ist Metaphysik? (…) Noi ci meravigliamo ancor oggi come gli Europei siano potuti cadere nell’errore d’interpretare nihilisticamente il Nulla di cui si ragiona nella conferenza accennata. Per noi il Vuoto è il nome più alto per indicare quello che Ella vorrebbe dire con la parola ‘Essere'”24.

Infatti nella prolusione del 1929, subito tradotta in giapponese dal suo allievo Seinosuke Yuasa (1905-1970), Heidegger si era soffermato sul problema del Niente, argomentando che il Niente si identifica con lo sfondo originario tramite cui l’ente appare e che, siccome tale sfondo dell’ente coincide con l’Essere, fare esperienza del Niente equivale a fare esperienza dell’Essere.

Una tale convinzione non poteva non trovare ulteriore sostegno nella dottrina taoista, secondo la quale “tutte le cose vengono all’esistenza mediante l’essere (yu), e questo mediante il wu, termine che non traduciamo semplicemente come ‘non-essere’ (…), bensì come l”essere non-essere’, cioè l’atto che trascende e determina il porsi della realtà”25. Oltre a manifestare per il Chuang-tze un interesse che è attestato da varie parti26, nell’estate del 1946 Heidegger tradusse in tedesco i primi otto capitoli del Tao-tê-ching, avvalendosi della mediazione di uno studioso cinese, Paul Shih-yi Hsiao (1911-1986)27, che del testo di Lao-tze aveva già pubblicato una versione italiana28.

Frequenti riferimenti a Heidegger si trovano nel commento che accompagna la traduzione del Tao-tê-ching iniziata nel 1973 da Chung-yuan Chang, autore di diversi studi sul taoismo e sul buddhismo ch’an. Rievocando un suo colloquio dell’anno precedente con Heidegger, Chang si sofferma sull’affinità del pensiero di quest’ultimo col taoismo, in relazione sia alla poesia sia al problema del Niente; osserva che la nozione heideggeriana di Aufheiterung (“schiarita”) è presente nella tradizione cinese e designa “un modo per entrare nel Tao”29; ricorda che Heidegger e lui concordarono nell’identificare la nozione di Lichtung (“radura”) con quella taoista di ming; ecc.

L’individuazione di tutte queste analogie, lungi dal costituire un banale gioco di parole e di concetti, ci rimanda alla vitale necessità del Dasein europeo di confrontarsi con quello asiatico. Lo ha detto d’altronde lo stesso Heidegger in Aufenthalte: “Il confronto con l’asiatico fu per l’esserci greco una profonda necessità. Esso oggi rappresenta per noi, in maniera assai diversa ed entro un orizzonte molto più ampio, la decisione sul destino dell’Europa”30.

 

 

 
NOTE:
 

1. H. G. Gadamer, Prefazione, in: M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Libreria Tullio Pironti, Napoli 1982, p. ix.

2. Amir Taheri, Mollarin Felsefe [La filosofia dei mullah], “Radikal” (Istanbul), 8 marzo 2005.

3. Dieter Thomä, Heidegger und der Iran, “Neue Zürcher Zeitung”, 10 dicembre 2005.

4. Jürgen Habermas trifft in Iran auf eine gesprächbereite Gesellschaft, “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, 13 giugno 2007.

5. Martin Heidegger, Qu’est-ce que la Métaphysique?, trad. par H. Corbin, Gallimard, Paris 1938.

6. Philippe Némo, De Heidegger à Sohravardî, “France-culture”, 2 giugno 1976 (www.amiscorbin.com).

7. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 7.

8. Trad. it.: M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, in: In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano 1973, pp. 83-125.

9. M. Inaba, Heideggâ no Shii no Shûkyôsei, Tokyo 1970.

10. T. Umehura e M. Oku, Heideggâ to Bukkyô, Tokyo 1970.

11. Satô Keiji, Heideggâ Hihan-sono Riron-Keitai ni tsuite, Tokyo 1926; Yoneda Shôtaro, Heideggâ no Kanshinron, Keizaironso XXVI-1, Kyoto 1928.

12. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova 1998, p. 54.

13. W. Barrett, Zen for the West, in: Zen Buddhism: Selected Writings of D. T. Suzuki, W. Barrett ed., Doubleday Anchor Books, Garden City 1956, xi.

14. D. T. Suzuki, Erinnerungen an einen Besuch bei Martin Heidegger, in: Japan und Heidegger (hrsg. H. Buchner), Sigmaringen 1989, p. 169.

15. T. Tezuka, Drei Antworten, in Japan und Heidegger, cit., p. 179.

16. H. Sh. Hisamatsu, La pienezza del nulla, Il Nuovo Melangolo, Genova 1985; Idem, Una religione senza dio, Il Nuovo Melangolo, Genova 1996.

17. M. Heidegger – Hôseki Shinichi Hisamatsu, L’arte e il pensiero, in: C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 97-104.

18. Kumar Dipak Raj Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Il Cerchio, Rimini 1990, p. 66.

19. Trad. it. in: M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1986, pp. 25-43.

20. M. Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen Kollegen, in: Japan und Heidegger, cit., p. 220.

21. M. Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen Kollegen, cit., p. 226.

22. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., p. 77.

23. H. W. Petzet, Auf einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976, Societäts Verlag, Frankfurt a. M. 1983, p. 191.

24. M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del Linguaggio, cit., p. 97.

25. P. Filippani-Ronconi, Storia del pensiero cinese, Boringhieri, Torino 1964, p. 58.

26. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 41-42.

27. P. Shih-yi Hsiao, Heidegger e la nostra traduzione del Tao Te Ching, in: C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, cit., pp. 105-118.

28. P. Siao Sci-Yi, Il Tao-te-King di Laotse, Laterza, Bari 1941.

29. Ch.-y. Chang, Reflections, in: Erinnerung an Martin Heidegger (hersg. G. Neske), Pfullingen 1977, p. 66.

30. M. Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Guanda, Parma 1997, p. 31.

 

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Il conflitto siriano potrebbe degenerare in una guerra mondiale

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Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, Damasco (Siria), 9 Giugno 2012

 
La crisi siriana ha cambiato natura. Il processo di destabilizzazione che avrebbe dovuto spianare la strada ad un’azione militare dell’Alleanza Atlantica è fallito. Togliendosi la maschera, gli Stati Uniti hanno pubblicamente indicato la possibilità di attaccare la Siria senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza, come hanno fatto in Kosovo, facendo finta d’ignorare che la Russia di Vladimir Putin non è quella di Boris Eltsin. Dopo essersi assicurato il sostegno cinese, Mosca ha sparato due colpi di avvertimento in direzione di Washington. La continuazione delle violazioni del diritto internazionale da parte della NATO e del GCC, può ora aprire un conflitto mondiale. 

 

 

Durante la celebrazione della vittoria, il 9 maggio il presidente Vladimir Putin ha sottolineato la necessità per la Russia di essere pronta a un nuovo sacrificio. Il presidente Vladimir Putin ha messo il suo terzo mandato sotto il segno della sovranità del suo paese contro le minacce lanciate direttamente contro la Federazione Russa dagli Stati Uniti e dalla NATO. Mosca ha ripetutamente condannato l’espansione della NATO, le basi militari sulle sue frontiere e lo schieramento della difesa antimissile, la distruzione della Libia e la destabilizzazione della Siria.

Nei giorni successivi alla sua investitura, Putin ha passato in rivista l’industria militare russa, le sue forze armate e il suo sistema di alleanze [1]. Ha continuato questa mobilitazione con la scelta di fare della Siria la linea rossa da non oltrepassare. Per lui, l’invasione della Libia da parte della NATO è paragonabile a quella della Cecoslovacchia da parte del Terzo Reich, e quello della Siria, se ciò dovesse accadere, sarebbe paragonabile a quella della Polonia che scatenò la seconda guerra mondiale.

Qualsiasi interpretazione di quanto sta accadendo nel Levante, in termini di rivoluzione/repressione interna siriana, non è solo falsa, ma impallidisce di fronte ai problemi reali e svela una mera comunicazione politica. La crisi siriana è soprattutto un palcoscenico del “rimodellamento del grande Medio Oriente”, un altro tentativo di distruggere l'”Asse della Resistenza”, e la prima guerra della “geopolitica del gas” [2]. La posta in gioco oggi in Siria, non è se Bashar al-Assad riesca a democratizzare le istituzioni da lui ereditate o se le monarchie del Golfo wahhabite riescano a distruggere l’ultimo regime laico nella regione e a imporre il loro bigottismo; ma quali frontiere separeranno i nuovi blocchi, la NATO (Organizzazione del Trattato Nord Atlantico) e la SCO (Shanghai Cooperation Organization) [3].

Alcuni dei nostri lettori probabilmente hanno sussultato alla lettura della frase precedente. Infatti, da mesi, i media occidentali e del Golfo martellano tutti i giorni sul fatto che il presidente Assad rappresenta una dittatura settaria a favore della minoranza alawita, mentre la sua opposizione armata incarna la democrazia pluralista.

Uno sguardo sugli eventi è sufficiente per screditare questo travisamento. Bachar al-Assad ha indetto in successione le elezioni comunali, un referendum e le elezioni parlamentari. Tutti gli osservatori concordano sul fatto che le elezioni si sono svolte in modo sincero. La partecipazione popolare ha raggiunto oltre il 60%, anche se gli occidentali l’hanno descritta come una “farsa”, e l’opposizione armata che sostengono ha impedito ai cittadini di andare alle urne nei quattro distretti sotto il loro controllo. Nel frattempo, l’opposizione armata ha aumentato le sue azioni non solo contro le forze di sicurezza, ma contro i civili e tutti i simboli multi-culturali e multi-confessionali. Hanno ucciso sunniti progressisti, poi hanno ucciso a caso alawiti e cristiani per forzare le loro famiglie a fuggire. Hanno bruciato più di 1500 scuole e chiese. Hanno proclamato l’effimero Emirato islamico indipendente di Bab Amr, dove hanno stabilito un tribunale rivoluzionario che ha condannato a morte più di 150 miscredenti, macellati uno per uno dal loro boia. E questo non è lo spettacolo pietoso di alcuni politici disonesti riunitisi nel Consiglio nazionale siriano in esilio, mostrando un progetto democratico di facciata estraneo alla realtà sul terreno dei crimini dell’esercito libero “siriano”, che da molto tempo nascondeva la verità. Inoltre, chi può credere che il regime laico siriano, di cui l’esemplarità era celebre non molto tempo fa, sarebbe diventato una dittatura religiosa, mentre l’esercito libero “siriano”, supportato dalle dittature wahhabite del Golfo e prono alle ingiunzioni dei predicatori takfiriti, sarebbe divenuto un esempio di pluralismo democratico?

L’evocazione da parte dei funzionari degli Stati Uniti di un possibile intervento internazionale al di fuori del mandato delle Nazioni Unite, il modo con cui la NATO aveva smembrato la Jugoslavia, ha provocato rabbia e preoccupazione a Mosca. La Federazione Russa, che finora era in una posizione difensiva, ha deciso di prendere l’iniziativa. Questo cambiamento strategico è causato dall’urgenza della prospettiva russa, e dall’evoluzione favorevole sul terreno in Siria [4].

Mosca ha proposto di istituire un Gruppo di contatto sulla Siria per riunire tutti gli Stati interessati, vale a dire gli Stati vicini, le potenze regionali e internazionali. Si tratta di sostituire con un forum per il dialogo l’attuale  dispositivo belligerante creato dagli occidentali con il termine orwelliano di “Conferenza degli Amici della Siria”.

La Russia continua a sostenere il Piano Annan, che in realtà è solo il recupero appena modificato del piano presentato da Sergej Lavrov alla Lega Araba. Si rammarica del fatto che questo piano non sia applicato, ma respinge la colpa sulle fazioni dell’opposizione che hanno preso le armi. Secondo A. K. Lukashevich, portavoce del ministero degli esteri, l’esercito libero “siriano” è un’organizzazione illegale secondo il diritto internazionale. Anche se assassina ogni giorno dai 20 ai 30 soldati siriani, è pubblicamente sostenuto dagli Stati della NATO e del GCC, in violazione del Piano Annan [5].

Posando come fautore della pace di fronte a una NATO guerrafondaia, Vladimir Putin ha chiesto alla CSTO di preparare lo schieramento dei “colbacchi blu” in Siria, sia per separare i belligeranti siriani che per combattere le forze straniere. Nikolaj Bordjuzha, segretario generale della CSTO, ha confermato che dispone di 20.000 uomini addestrati per questo tipo di missione e sono immediatamente disponibili. [6]

Questa sarebbe la prima volta che il CSTO dispiegherebbe una forza di pace al di fuori dello spazio ex sovietico. Punto sul vivo, il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon ha cercato di sabotare questa iniziativa offrendosi improvvisamente di organizzare lui stesso un gruppo di contatto.

Alla riunione a Washington del gruppo di lavoro sulle sanzioni della Conferenza degli Amici della Siria, la segretaria di stato degli USA Hillary Clinton ha ignorato la proposta russa e ha inasprito il sostegno al cambiamento di regime [7].

In Turchia, i parlamentari dell’opposizione hanno visitato i campi dei profughi siriani. Non hanno trovato più di mille rifugiati registrati dalle Nazioni Unite nel campo principale, ma al contrario, la presenza di un arsenale nel campo. Hanno poi interrogato all’Assemblea il primo ministro Recep Tayyip Erdogan chiedendogli di rivelare la quantità di aiuti umanitari accordati ai fantomatici rifugiati. I deputati ritengono che il campo profughi sia una copertura per una operazione militare segreta. Ospita in realtà dei combattenti, per lo più libici, che lo usano come base arretrata. I deputati hanno suggerito che questi combattenti sono coloro che hanno fatto irruzione nella zona, quando il massacro di Hula ha avuto luogo.

Queste informazioni confermano le accuse dell’ambasciatore russo al Consiglio di Sicurezza, Vitalij Churkin, secondo cui il rappresentante speciale di Ban Ki-moon in Libia, Ian Martin, ha utilizzato i mezzi delle Nazioni Unite destinati ai rifugiati, per inviare in Turchia i combattenti di al-Qaida [8].

In Arabia Saudita, la frattura tra re Abdullah e il clan Sudeiri si è di nuovo manifestata. Su invito di Abdullah I, il Consiglio degli Ulema ha emesso una fatwa dichiarando che la Siria non è terra di jihad. Ma al tempo stesso, il principe Faisal, ministro degli esteri, ha chiesto di armare l’opposizione contro l'”usurpatore alawita”.

Mentre Ban Ki-moon e Navi Pillay, rispettivamente segretario generale e alto commissario per i diritti umani, indirizzavano la loro requisitoria contro la Siria davanti l’Assemblea generale dell’ONU, Mosca ha lanciato due missili balistici intercontinentali.

Il missile Bulava prende il nome dall’antica mazza slava del maresciallo delle armate cosacche.

Il colonnello Vadim Koval, portavoce della RSVN, ha ammesso il test di lancio di un Topol, lanciato da un silo nei pressi del Mar Caspio, ma non ha confermato quello del Bulava lanciato da un sottomarino nel Mediterraneo. Tuttavia, il lancio è stato osservato in tutto il Medio Oriente, da Israele all’Armenia, e non ci sono altre armi note che potrebbe lasciare simili tracce nel cielo [9].

Il messaggio è chiaro: Mosca è pronta alla guerra mondiale se la NATO e il GCC non ottempereranno agli obblighi internazionali, come definito dal Piano Annan, e continuano ad alimentare il terrorismo.

Secondo quanto riferito, questo colpo di avvertimento è stato coordinato con le autorità siriane. Mosca sollecitava Damasco a liquidare l’Emirato islamico di Bab Amr, subito dopo che la leadership del presidente al-Assad era stata confermata dal referendum costituzionale, e incoraggiato il Presidente a liquidare i gruppi dei mercenari nel paese non appena il nuovo Parlamento e il nuovo Primo ministro saranno insediati. È stato dato l’ordine di passare da un atteggiamento difensivo ad un’azione offensiva per proteggere il popolo dal terrorismo. L’esercito nazionale ha pertanto avviato l’attacco contro i bastioni dell’esercito libero “siriano”. La lotta nei prossimi giorni sarà difficile, soprattutto perché i mercenari hanno mortai, missili anticarro e ora missili terra-aria.

Per abbassare la tensione, la Francia ha immediatamente accettato la proposta russa per la partecipazione ad un gruppo di contatto ad hoc. Washington ha inviato d’urgenza Frederic C. Hof a Mosca. Contraddicendo le dichiarazioni fatte ieri dalla segretaria di stato Hillary Clinton, il signor Hof ha a sua volta accettato l’invito russo.

Non c’è tempo per lamentarsi dell’estensione dei combattimenti in Libano, né di sproloquiare su una possibile regionalizzazione del conflitto. Dopo che per 16 mesi hanno destabilizzato la Siria, la NATO e il GCC hanno creato una situazione di stallo che ora può degenerare in una guerra mondiale.

 

NOTE:

[1] Agenda del Presidente Putin:
7 maggio: investitura del presidente Vladimir Putin
8 maggio: nomina di Dmitrij Medvedev a primo ministro
9 maggio: celebrazione della vittoria contro la Germania nazista
10 maggio: visita al complesso militare-industriale russo
11 maggio: ricevimento del Presidente abkhazo
12 maggio: ricevimento del Presidente dell’Ossezia del Sud
14-15 maggio: riunione informale con i capi di stato della CSTO.
18 maggio: visita all’istituto di ricerca della difesa Cyclone
25 maggio: rivista dei sottomarini nucleari
30 maggio: riunione con i principali funzionari della difesa
31 maggio: riunione del Consiglio di sicurezza russo
4-7 giugno: visita in Cina, vertice della SCO
7 giugno: visita in Kazakistan durante il lancio del missile Topol

[2] “La Siria, al centro della guerra del gas in Medio Oriente (http://www.voltairenet.org/La-Siria-al-centro-della-guerra)”, Imad Fawzi Shueibi, Réseau Voltaire, 8 maggio 2012.

[3] “Moscou et la formation du Nouveau Système Mondial (http://www.voltairenet.org/article173020.html)”, Imad Fawzi Shueibi, traduzione Marie-Ange Patrizio, Réseau Voltaire, 13 marzo 2012.

[4] “Il caso di Houla illustra il ritardo dell’intelligence occidentale in Siria (http://www.voltairenet.org/Il-caso-di-Houla-illustra-il)”, Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 2 giugno 2012.

[5] “Comment of Official Representative of the Ministry of Foreign Affairs of Russia AK Lukashevich on the Question of Interfax related to the statement made by Representative of so-called Free Syrian Army S.Al-Kurdi (http://www.mid.ru/brp_4.nsf/0/3C6B4657E00F441244257A17003CB16A)”, Ministero degli Affari Esteri della Russia, 5 giugno 2012.

[6] “Siria: Vladimir Putin propone una forza di peacekeeping della CSTO (http://www.voltairenet.org/Vladimir-Putin-propone-una-forza)”, Réseau Voltaire, 3 giugno 2012.

[7] “Friends of the Syrian People Sanctions Working Group (http://www.state.gov/secretary/rm/2012/06/191874.htm)”, comunicato stampa di Hillary Clinton, Dipartimento di Stato, 6 giugno 2012.

[8] “La Libye, les bandits-révolutionnaires et l’ONU (http://www.voltairenet.org/article173640.html)”, Alexander Mezyaev, traduzione Julia, Strategic Culture Foundation (Russia), Réseau Voltaire, 17 aprile 2012.

[9] “7 juin 2012: la Russie manifeste sa supériorité balistique nucléaire intercontinentale (http://www.voltairenet.org/article174553.html)”, Réseau Voltaire, 8 giugno 2012.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com
 

 

 

 

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La NATO sta preparando una grande operazione di disinformazione

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Thierry Meyssan, Réseau Voltaire , Damasco (Siria), 10 giugno 2012

 
Gli Stati membri della NATO e del GCC stanno preparando un colpo di stato e un genocidio settario in Siria. Se volete opporvi a questi crimini, agite subito: mettete questo articolo in rete e segnalatelo ai vostri eletti.

 

 

Tra pochi giorni, forse già venerdì 15 giugno, a mezzogiorno, i siriani che vorranno guardare i canali nazionali li vedranno sostituiti sui loro schermi dalle televisivi create dalla CIA.

Immagini realizzate in studio mostreranno massacri attribuiti al governo, manifestazioni pubbliche, ministri e generali che danno le loro dimissioni, il presidente al-Assad che fugge, i ribelli che si radunano nel cuore delle principali città, e un nuovo governo  che s’installa nel palazzo presidenziale.

Questa operazione, direttamente guidata da Washington da Ben Rhodes, viceconsigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, è destinata a demoralizzare i siriani e a consentire un colpo di stato. La NATO, che si scontra con  il doppio veto di Russia e Cina, giungerà a conquistare la Siria senza doverla attaccare illegalmente.

Qualunque sia il giudizio sugli eventi attuali in Siria, un colpo di stato metterebbe fine ad ogni speranza di democratizzazione.

Molto ufficialmente, la Lega Araba ha chiesto agli operatori satellitari Arabsat e Nilesat d’interrompere la ritrasmissione dei media siriani, pubblici e privati (Syria TV, al-Ekbariya, ad-Dunya, Cham TV, ecc.). C’è un precedente, dal quando la Lega aveva già lavorato alla censura televisiva libica, per evitare che i leader libici comunicassero con il loro popolo. Non c’è nessuna rete radio in Siria, per cui le televisioni sono ricevute esclusivamente via satellite. Ma questo taglio non lascerà gli schermi neri.

Infatti, questa decisione pubblica è solo la punta dell’iceberg. Secondo informazioni, parecchi incontri internazionali si sarebbero tenuti in questa settimana, per coordinare l’operazione di disinformazione. I primi due, di ordine tecnico, a Doha (Qatar), il terzo politico, tenutosi a Riyadh (Arabia Saudita).

Alla prima riunione hanno partecipato gli ufficiali della guerra psicologica inseriti in alcuni canali satellitari, tra cui al-Arabiya, al-Jazeera, BBC, CNN, Fox, France 24, Future TV, MTV. Sappiamo che dal 1998 gli ufficiali dell’Unità Operazioni di Guerra Psicologica (PSYOP) dell’US Army sono stati inseriti nella redazione di CNN; dopo, questa pratica è stata estesa dalla NATO ad altre stazioni TV strategiche. Hanno preparato in anticipo delle false informazioni, secondo un “racconto” sviluppato dalla squadra di Ben Rhodes alla Casa Bianca.

Una procedura di convalida incrociata è stata messa a punto, ogni media riporterà le menzogne degli altri, per renderle credibili presso i telespettatori.

I partecipanti hanno inoltre deciso non solo di requisire le reti TV della CIA in Siria e Libano (Barada, Future TV, MTV, Orient News, Syria Shaab, Syria Alghad), ma anche una quarantina di canali TV wahhabiti che invocano il massacro settario al grido di “I cristiani a Beirut, gli alawiti nella tomba!”

Il secondo incontro ha riunito ingegneri e sviluppatori per programmare la produzione di immagini di fiction, miscelando una parte realizzata negli studi a cielo aperto e una parte realizzata con l’elaboratore grafico. Degli studi sono stati costruiti nelle ultime settimane in Arabia Saudita, per riprodurre i due palazzi presidenziali siriani e le piazze principali di Damasco, Aleppo e Homs. Vi sono già studi di tale tipo a Doha, ma sono insufficienti.

Alla terza riunione hanno partecipato il generale James B. Smith, ambasciatore degli Stati Uniti, un rappresentante del Regno Unito, e il principe Bandar Bin Sultan (che il presidente George Bush padre ha designato come figlio adottivo, al punto che la stampa statunitense l’ha definito “Bandar Bush”). Si tratta di coordinare i media e “l’esercito libero siriano”, in cui i mercenari del principe Bandar formano il grosso degli effettivi.

L’operazione che è in gestazione da mesi, è stata accelerata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, dopo che il presidente Putin ha comunicato alla Casa Bianca che la Russia si  opporrà con forza a qualsiasi intervento militare illegale della NATO in Siria.

Questa operazione consiste in due flussi simultanei: da una parte diffondere false informazioni e dall’altra impedire ogni possibilità di rispondervi.

Il fatto di oscurare le TV satellitari per condurre una guerra, non è nuovo. Così, sotto la pressione di Israele, Stati Uniti e Unione europea hanno oscurato in successione le reti TV libanesi, palestinesi, irachene, libiche e iraniane. Nessuna censura è stata condotta verso i canali satellitari di altre parti del mondo.

La diffusione di notizie false, non è una novità. Tuttavia, quattro passi importanti sono stati adottati  nell’arte della propaganda, durante l’ultimo decennio.

• Nel 1994, una stazione di musica pop, Radio Libera delle Mille Colline (RTLM) ha dato il segnale del genocidio ruandese, invocando “l’uccisione degli scarafaggi!”.

• Nel 2001, la NATO ha usato i media per imporre una interpretazione degli attentati dell’11 settembre e giustificare gli attacchi in Afghanistan e in Iraq. Anche allora, fu Ben Rhodes ad esser stato incaricato dall’amministrazione Bush a scrivere la relazione della Commissione Kean/Hamilton sugli attentati.

• Nel 2002, la CIA ha usato cinque canali, Televen, Globovision, Meridiano, ValeTV e CMT, per far credere che delle enormi manifestazioni avevano costretto il presidente del Venezuela Hugo Chavez a dimettersi, mentre era stato vittima di un colpo di stato militare.

• Nel 2011, France 24 funse da Ministero dell’Informazione de facto del Consiglio Nazionale della Libia, con il quale era legata da un contratto. Nella battaglia di Tripoli, la NATO ha fatto realizzare in studio e diffondere da al-Jazeera e al-Arabiya le immagini dei ribelli libici che entravano nella piazza centrale della capitale, mentre erano ancora lontani dalla città, in modo che i residenti, convinti che la guerra fosse persa, cessassero ogni resistenza.

Ora i media non si accontentano più di sostenere la guerra, la fanno.

Questa disposizione viola i principi fondamentali del diritto internazionale, a cominciare dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo relativa al fatto “di ricevere e diffondere informazioni e idee oltre le frontiere e tramite qualunque mezzo di espressione”. Soprattutto, viola le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottate dopo il secondo conflitto mondiale per impedire le guerre. Le risoluzioni 110, 381 e 819 proibiscono “le barriere al libero scambio di informazioni e idee” (in questo caso l’oscuramento delle reti siriane) e “la propaganda che rischia di provocare o incoraggiare ogni minaccia alla pace,  violazione della pace, o atto di aggressione”. Nel diritto, la propaganda di guerra è un crimine contro la pace; è il crimine più grave, dal momento che rende possibili crimini di guerra e genocidi.

 


Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Il collegamento dei bacini idrografici del Sudamerica

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La navigazione fluviale da la Plata al Guaria rappresenta l’asse più originale dell’integrazione sudamericana, il resto sono parole.

Il geopolitico belga Robert Steuckers sostiene a ragione che “nessun potere serio può sopravvivere senza un dominio e un assoggettamento della terra e dello spazio”[1]. Tutti gli imperi antichi organizzarono la terra mediante la costruzione di strade, come nel caso romano, o mediante il controllo dei grandi fiumi navigabili, come in Egitto e in Cina.

Se noi pretendiamo costruire in Sudamerica un grande spazio inquadrato secondo caratteristiche sovrane e libero, dobbiamo seguire questo consiglio che ci è dato dalla storia.

Questo subcontinente americano ha una superficie di quasi 18 milioni di chilometri quadri, il doppio degli Stati Uniti e il doppio dell’Europa, possiede, oltre ad altri minori, tre grandi bacini fluviali: quello del Rio delle Amazzoni (6.430.000 Km2), quello del Rio de la Plata (4.000.000 Km2) e quello dell’Orinoco (1.000.000 Km2), che occupano due terzi del loro territorio e formano una fitta rete di 50.000 km di vie navigabili di grandi e di piccoli corsi d’acqua che si estendono per tutta l’America meridionale.

Perciò il collegamento per via fluviale dal Rio de la Plata in Argentina-Uruguay al Guaria in Venezuela è un argomento di cruciale valore geopolitico e strategico. Esprimendoci con proprietà, questo è un tema di metapolitica, perché questa è l’interdisciplina che studia le grandi categorie che condizionano l’azione politica.

 

Precedenti storici

Lo studio di quest’argomento si trascina ormai da vari secoli e finora non è andato oltre le buone intenzioni.

Il primo precedente che troviamo è datato 1773, quando il governatore del Mato Grosso, Luiz de Cáceres, pensò costruire un canale tra i fiumi Alegre, affluente del Guaporé del bacino amazzonico e l’Aguapey, affluente del Paraguay del bacino della Plata. Su questa scia prosegue il Barone di Melgaço, nel 1851.

Il primo studio sperimentale lo troviamo nel geografo inglese William Chandless Resumo do itinerario da descida do Tapajoz[2], ottobre 1854 (Notas, Rio de Janeiro, 1868), dove è dimostrato che, navigando dal punto in cui il Tapajoz sbocca nelle Amazzoni, si può giungere fino allo Juruena, che si collega alle sorgenti del Guaporé. Si cerca l’accesso nelle Amazzoni da est, ma senza risolvere il tema del raccordo dei due bacini. Questo lavoro fu approfondito in Brasile nel 1869 dagli ingegneri de Moraes, con il loro “Piano Moraes” di navigazione da la Plata all’Orinoco e, in seguito, dall’ingegnere Andre Rebousas, nel 1874. Vale la pena rilevare che gli studi brasiliani sull’interconnessione dei tre bacini sono di una precisione unica; ci sono molti altri lavori, ma nessuno, assolutamente nessuno, ha cambiato le cose. Questo è il rammarico del grande studioso brasiliano dell’argomento, don Paulo Mendes Rocha, nel secolo XX.

L’altro illustre precedente è quello del presidente Sarmiento, il quale fece studiare a un gruppo di scienziati francesi la possibilità di navigare senza interruzione dalla foce del Rio de la Plata fino all’Orinoco. Argomento, questo, che egli aveva già trattato nel 1850 nel libro Argirópolis o la capital de los Estados Confederados del Río de la Plata, (capitale che dovrebbe essere ubicata nell’Isola San Martín García, nell’estuario del Rio de la Plata).

Cinquant’anni dopo, nel 1909, il geografo uruguaiano Luis Cincineto Bollo[3] afferma in un suo libro, Suramérica, pasado y presente, che “la futura grande rotta commerciale del Sudamerica è il canale” e propone di seguire il suggerimento di Chandless di unire il bacino della Plata con quello delle Amazzoni mediante il Tapajoz e non attraverso il Guaporé-Madeira.

Nel 1916 compare la Carta potomografica especial de América do Sul, di Francisco Jaguaribe de Matos, padre del grande sociologo brasiliano Helio Jaguaribe, il quale indica le evidenti possibilità di collegamento tra i fiumi Guaporé e Paraguay.

Alcuni anni dopo, nel 1941, la Conferenza regionale dei paesi della Plata, riunita a Montevideo, raccomandò agli stati membri, sotto proposta argentina, di sviluppare gli studi esistenti sul collegamento dei tre grandi sistemi idrografici dell’America del Sud.

L’anno successivo, l’ingegner Ernesto Baldassari tiene una conferenza dal titolo La vinculación de las cuencas del Amazonas y della Plata[4], dove spiega che il collegamento tra i due bacini può essere realizzato per due vie: dall’est, seguendo il percorso del Rio delle Amazzoni, Tapajoz, Juruena, Diamantino, Paraguay, Paraná, la Plata, con un percorso di 7.000 km, oppure attraverso Rio delle Amazzoni, Madeira, Mamoré, Guaporé, Alegre, Aguapey, Jaurú, Paraguay, Paraná, la Plata, con 8.500 km di percorso.

Nel 1947 compare un lavoro introduttivo, tecnicamente dettagliato e di precisione concettuale, redatto dal geografo Horacio Gallart, Cruzando la América del Sur desde el río de la Plata hasta el Orinoco, por vía fluvial[5], dove la cartina della rotta fluviale sudamericana propone un percorso per i fiumi Paraná, Paraguay, Jaurú, Aguapey (bacino della Plata), Alegre, Guaporé, Mamoré, Madeira, Amazzoni, Negro (bacino delle Amazzoni), Casiquiare e Orinoco.

Nel 1962 viene pubblicato il lavoro dell’ingegner Gabriel del Mazo, storico del radicalismo, legislatore e pubblicista, ministro della Difesa (1958-59), con il titolo: Proyecto de un canal sudamericano[6]. Quest’opera si propone di analizzare il legame esistente tra i tre bacini, stabilendo che con la costruzione di un canale intermedio di 30 km (tra le sorgenti del Fiume Casiquiare e Negro) si supererebbe la difficoltà di collegamento dell’Orinoco con il Rio delle Amazzoni, mentre per collegare il Guaporé con il Paraguay si dovrebbe costruire un canale di 8 km, con una differenza di altitudine di 30 metri, insignificante dislivello che divide le acque dei due più grandi bacini idrografici dell’America meridionale: quello delle Amazzoni e quello della Plata.

Tra il dicembre 1979 e il maggio 1980 i fratelli Georgescu, venezuelani di origine rumena, navigarono i fiumi Orinoco, Casiquiare, Negro, Rio delle Amazzoni, Madeira, Mamoré, Guaporé, Paraguay, Paraná e Rio de la Plata, fino a giungere nella città di Buenos Aires, compiendo una traversata di oltre 8.000 km. Con ciò, in pratica, dimostrarono l’esistenza dell’asse fluviale nord-sud che consente la comunicazione dei principali bacini e le possibilità che si offrono ai paesi dell’America meridionale di collegarsi tra loro. Il viaggio di ritorno sullo stesso percorso iniziò il 18 gennaio 1981.

 

Difficoltà geografiche

Sappiamo dai lavori dell’ingegner Ernesto Baldassari che esistono due percorsi per collegare il Rio delle Amazzoni e la Plata.

La via più frequentata fino ad ora è quella che hanno percorso Roger Courteville[7], negli anni trenta, e i fratelli Georgescu, agli inizi degli anni ottanta. La stessa che venne raccomandata dal geografo Horacio Gallart e dall’ingegner Gabriel del Mazo: quella che va da la Plata alle Amazzoni ad ovest del Guaporé-Madeira.

Qui esistono due difficoltà, molto semplici da superare. Navigando da sud a nord ci imbattiamo, in primo luogo, nella necessità di costruire un canale di 8 km che colleghi i fiumi Aguapey e Alegre, i quali percorrono un lungo tratto in parallelo. Il primo è affluente dello Jaurú, che a sua volta lo è del Paraguay; il secondo, del Guaporé.

La seconda difficoltà la sollevano le cachoeiras, piccole cascate sul fiume Madeira, tra Guajará-Mirim e Porto Velho, che nell’insieme rappresentano una discesa delle acque del fiume di 66 metri; ciò richiede la costruzione di un sistema di dighe le quali, con la tecnologia esistente, sarebbero di facile costruzione[8].

Infine, il collegamento tra il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco non offre maggiori difficoltà, tranne che nelle rapide Atures e Maypures del Casiquiare; qui la navigazione avviene con l’aiuto dei baqueanos, esperti conoscitori di tutta la rete dei fiumi adiacenti, come confermano i fratelli Georgescu che hanno navigato il Casiquiare all’andata e al ritorno senza trovare grandi difficoltà[9].

La seconda via è quella proposta da Cincineto Bollo: da sud a nord si naviga parte dal Paraguay, Diamantino, Juruena e Tapajoz, per sfociare nel Rio delle Amazzoni. Una parte di questo lungo percorso è stata magnificamente narrata dal fotografo francese, naturalizzato brasiliano, Hécules Florence (1804-1879) nel suo libro Viagem fluvial: do Tieté ao Amazonas[10].

Gabriel del Mazo riferisce che a soli due chilometri a est delle fonti del Paraguay, dove nasce il fiume Preto, affluente occidentale dell’Arinos (Tapajoz), e dove pulsano e sgorgano le sorgenti del Rio delle Amazzoni e della Plata, circola il racconto del proprietario di una fazenda dell’Estivado (fiume affluente dell’Arinos): sarebbe stato lui a unire il Rio delle Amazzoni e la Plata, giacché “si era proposto di annaffiare il suo giardino e, per farlo, aveva scavato un canale in mezzo ai due affluenti originari”[11].

Si può osservare che questa via non offre maggiori difficoltà geografiche da superare.

 

Difficoltà politiche

L’inconcepibile ritardo, a tre secoli dalla proposta di un canale sudamericano, non trova altra spiegazione che le difficoltà politiche che ne hanno ostacolato la realizzazione. È noto che, dopo una lunga storia di incontri falliti, le strategie di Argentina e Venezuela si scontrano in questo punto con quelle del Brasile.

Il Brasile scoraggia la navigazione dalla Plata alle Amazzoni, perché ciò significherebbe concedere all’Argentina un accesso all’Amazzonia. Oltre alle due vie, è stata scartata quella proposta dall’uruguaiano Bollo, vale a dire quella che va dal Tapajoz, poiché ciò implicherebbe penetrare nel cuore del Brasile. Qui c’è una difficoltà insuperabile e comprensibile. Una potenza emergente come il Brasile non può consentire che navi dal Venezuela e dall’Argentina circolino liberamente per il centro strategico del suo territorio.

Scartata questa possibilità, resta solo la via dell’ovest, che fa rotta per i fiumi limitrofi del Brasile con il Paraguay e con la Bolivia; ma la riluttanza la si avverte anche qui, poiché la strategia del Brasile, come quella degli Stati Uniti, consiste nell’uscire a ovest e non nell’allargarsi da nord a sud, e il canale sudamericano s’inserisce in quest’ultima strategia. Il Brasile non sente la necessità di navigare il Casiquiare per arrivare al Guaria, né sente la necessità di viaggiare il Guaporé per giungere alla Plata. La Sovrintendenza di Navigazione interna del Brasile ufficialmente segnala che la strategia del paese lusitano è quella di cercare l’integrazione del Brasile separatamente con il Perù e la Bolivia da una parte, dall’altra con l’Argentina, il Paraguay e l’Uruguay, dall’altra con l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ciò deve essere preso in considerazione, perché altrimenti si corre il rischio di cadere in un utopismo volontario che ci porterebbe solo ad elaborare testi sull’argomento. Bisogna dirlo apertamente: la necessità è di Argentina, Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, che potrebbero esportare i loro prodotti in grandi quantità, in forma economica e non inquinante.

La realizzazione di questo canale sudamericano implica, innanzitutto, che bisogna persuadere e convincere l’intellighenzia brasiliana di Itamaraty circa i vantaggi che la sua esecuzione potrebbe procurare al Brasile[12]; in caso contrario continueremo a scrivere saggi sul collegamento dei tre bacini dell’America meridionale e a leggere i piacevoli diari di viaggio degli impenitenti viaggiatori europei[13].

 

* Alberto Buela è un collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.


 

NOTE:

[1] Intervista di Matamedia, pubblicata in Geosur, N° 352, Montevideo, settembre-ottobre, 2009, p.16.

[2] Riassunto dell’itinerario della discesa del Tapajoz (N.d.T.)

[3] La ormai veterana rivista di geopolitica del Sudamerica, Geosur, diretta dal geopolitologo uruguaiano, B. Quagliotti de Bellis, gli ha appena reso un giusto omaggio nel suo numero 350-51, luglio-agosto, 2009.

[4] La trascrizione della conferenza si trova sulla Revista de Geografía Americana, anno XV, Buenos Aires, ottobre 1947.

[5] Pubblicato nella rivista Ingeniería, pubblicazione del Centro Argentino degli Ingegneri, Buenos Aires, maggio 1942, pp. 285-293.

[6] Pubblicato, tra gli altri, nella rivista Estrategia, N° 61/62, Buenos Aires, gennaio-febbraio, 1980, pp. 30-39.

[7] Roger Courteville, “De Buenos Aires a l’Amazona par le centre de l’Amerique du Sud”, rivista “L’Ilustration”, Paris, N°20, settembre, 1930.

[8] Su questo tratto di navigazione è insostituibile il lavoro di Monsignor Federico Lunardi: “De Gguajará-Mirim a Porto Velho”, in Rivista di geografia Americana, N°64, gennaio, 1939.

[9] Los ríos de la integración sudamericana, Universidad Simón Bolívar, Caracas, 1984.

[10] Viaggio fluviale: Dal Tieté all’Amazzoni (N.d.T.)

[11]  Del Mazo, Gabriel, op. cit., p.34.

[12] Ad esempio, si potrebbe argomentare che se l’Idrovia Paraguay-Paraná collegasse effettivamente Puerto Cáceres, nel Mato Grosso, con quello di Nueva Palmira, in Uruguay, la soia brasiliana e quella paraguaiana potrebbe offrirsi all’estero più economica di U$ 25 la tonnellata da quella americana. Allo stesso modo, se l’Idrovia fosse priva degli ostacoli di degrado e di segnalazione di pericolo che oggi possiede, ciò che attualmente si trasporta in trenta giorni si potrebbe trasportare in un massimo di dieci giorni.

[13] Esiste in lingua italiana un vecchio lavoro di Giuseppe Puglisi: “Da la Plata all’Orinoco per via fluviale”, pubblicato nella rivista Le vie d’Italia e del Mondo (anno I, nn. 11 e 12), novembre e dicembre 1933.

(trad. di V. Paglione)

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Conferenza di presentazione di Perugia: resoconto e foto

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Venerdì 8 giugno a Perugia, come preannunciato, si è svolta la conferenza di presentazione del nuovo numero della Rivista di studi geopolitici Eurasia, dedicato al Mediterraneo. Nello scenario della Sala ex Giunta di Palazzo dei Priori, è andato così in archivio un incontro che ha registrato un notevole afflusso di pubblico interessato che è potuto entrare in contatto per la prima volta con la realtà redazionale per conoscerne le tematiche di punta e le caratteristiche editoriali.

Il direttore della Rivista, Claudio Mutti, ha introdotto i lavori presentando il nuovo numero attraverso una esaustiva sintesi che ha “sfogliato” dialetticamente tutto il numero appena uscito, illustrandone i principali approfondimenti e puntualizzando il punto di vista della redazione in merito alla definizione geopolitica del Mediterraneo, specie dopo gli sconvolgimenti delle cosiddette “primavere arabe” dello scorso anno.

Poco dopo, è intervenuto Simone Santini, giornalista e saggista, che ha presentato il suo testo “Iran 2012”, illustrando la storia e le caratteristiche politico-religiose della Repubblica Islamica dell’Iran, e suscitando la curiosità del pubblico che ha poi rivolto diverse domande all’autore del libro per cercare di comprendere la realtà sociale e geopolitica della nazione persiana, al di là e al di fuori della propaganda occidentale.

Infine, Andrea Fais, giornalista e saggista, ha illustrato il punto di vista della Repubblica Popolare Cinese nel quadro afro-mediterraneo, spiegando le ragioni, internazionali ed interne, del contrariato atteggiamento di Pechino dinnanzi alle forti destabilizzazioni occorse durante il 2011, approfondendo dialetticamente quanto sintetizzato nel saggio pubblicato sull’ultimo numero della Rivista.

 

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Andrea Fais, “L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakistan”, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012

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Questo libro di un ricercatore italiano, Andrea Fais, è dedicato alla geopolitica ed alla politica della Repubblica del Kazakistan. L’autore fornisce una dettagliata analisi dei vari aspetti della politica kazaka, ripercorre la nascita del sistema politico della Repubblica, ne esamina gli aspetti economici ed energetici. La quantità e la qualità dei materiali prodotti ed il livello di analisi dei fattori chiave fanno di questo libro un punto di riferimento importante per tutti coloro che sono interessati ai problemi dell’Asia centrale postsovietica ed ai futuri equilibri di potere nella regione.

È chiaro che le idee dell’autore sono quelle della scuola geopolitica continentale definibile come “eurasiatica”. L’oggetto di studio, il Kazakistan, e il metodo, la geopolitica eurasiatica, sono ben combinati tra loro: il Kazakhstan si trova al centro del continente eurasiatico, ed il presidente permanente di questo paese, Nursultan Nazarbaev, proclama apertamente la sua idea eurasiatista nel complicato labirinto della politica postsovietica. Ciò spiega la portata e l’effetto del libro nel suo complesso, che è una verificata e comprovata analisi scientifico-strategica; esso è tuttavia un documento importante della scuola geopolitica continentale, sicuramente destinato a diventare uno strumento autorevole ed indispensabile per il rapido sviluppo della comunità che oggi sostiene il multipolarismo, l’eurasiatismo e il “dialogo tra le civiltà”.

(Dal saggio introduttivo di Aleksandr Dugin)
 

Andrea Fais, “L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakistan”, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 158, € 18,00

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Fenomeno Turchia, un’economia in crescita

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Il 12 giugno a Milano si è tenuta – nel quadro del progetto “Fenomeno Turchia”, incontri 2011/2012” organizzato dal CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e dall’UniCredit – la conferenza “Turchia: l’integrazione economica in Europa e nel Mediterraneo”.

L’ambasciatore Hakkı Akil ha voluto specificare che le privatizzazioni in Turchia non riguarderanno i “settori basilari”, che continueranno a essere gestiti dallo Stato; per quanto riguarda l’integrazione nell’Unione europea essa rimane un obiettivo – “Siamo un po’ masochisti”, ha osservato – anche se la priorità dichiarata per Ankara è quella per Nord Africa e Vicino/Medio Oriente, ove però “la stabilità politica è essenziale”.

Interessanti osservazioni sono giunte, fra l’altro, da Bruno Ermolli, presidente della Promos (struttura di promozione dell’economia lombarda costituita dalla Camera di commercio di Milano), che ha sottolineato la similitudine fra l’economia turca e quella italiana: entrambe si basano sulla piccola e media impresa, ed entrambe gravitano nell’area euromediterranea (è previsto per novembre 2012 la nona edizione del Forum economico euromediterraneo, indetto proprio dalla Promos). Ha in qualche modo ripreso il tema Neriman Ulsever – presidente della Indesit Turchia – indicando come dato fondamentale il fatto che in Turchia sono i valori familiari (della famiglia) a sostenere l’economia. Un radicamento nel territorio poco compatibile con i presupposti della globalizzazione, dunque.

Su un fronte più internazionale da segnalare l’esperienza riportata da Pasquale Forte, amministratore delegato dell’italiana Eldor, spintasi con grande successo dalle rive del Lario in Turchia: nello stabilimento di Izmir ingegneri cinesi e brasiliani – provenienti cioè da Paesi in cui pure è presente la Eldor – operano con le maestranze turche, per le quali è stato anche predisposto un addestramento formativo italiano… Una singolare combinazione “eurasiatica” che si spera possa portare benefici più diretti anche alla nostra difficile realtà italiana.

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Aggiornamenti sulla situazione in Siria del 13 giugno 2012

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· Le autorità competenti hanno dato la caccia ai terroristi che da giorni aggrediscono gli abitanti della città al-Haffeh, devastando e saccheggiando proprietà private e pubbliche. Le forze dell’ordine sono riuscite ad uccidere molti terroristi, altri sono stati feriti ed altri ancora arrestati. Nei violenti scontri conseguenti agli inseguimenti, sono morti due agenti governativi, ed altri sono rimasti feriti.

· Nella periferia di Aleppo, in località Heryatan, per lunghi giorni bande di terroristi armati hanno aggredito i cittadini, fomentando il caos e l’instabilità. Ieri le autorità competenti sono riuscite ad accedere alla zona e si sono scontrate con i terroristi, ripulendo l’area dai criminali e ripristinando la calma e la sicurezza. Gli agenti hanno sequestrato ingenti quantità di armi che i terroristi usavano per aggredire i residenti, commettere vandalismi ed assalire proprietà private e pubbliche.

· A Duma, una bomba è esplosa mentre due terroristi la stavano trasportando dalla località Suq el Ghanam (Duma) alla periferia. Nello scoppio sono morti entrambi i terroristi.

· A Deir ez-Zor, nel quartiere di Jabilah, quattro terroristi sono morti nello scoppio di un ordigno rudimentale che stavano fabbricando artigianalmente. Il violento scoppio ha fatto crollare un intero muro dell’abitazione, che è precipitato su un’automobile di passaggio, causando la morte di una bambina e il ferimento dei suoi famigliari.

· Un gruppo terroristico ha rapito i passeggeri di due microbus sulla strada che collega al-Quseir, nella periferia di Homs, con Jusieh.

· D’altra parte, le autorità preposte hanno respinto l’attacco di gruppi terroristici armati contro cittadini e forze dell’ordine in località Nazariyah, nella periferia di Quseyr, vicino al confine con il Libano.

· Ad Hama tre cittadini sono rimasti feriti dalle schegge di un ordigno esploso vicino alla circonvallazione di Ayn el-Lawzeh. L’ordigno, attivato mediante un telecomando a distanza e destinato a colpire le automobili e i passanti, ha causato il ferimento di tre persone che si trovavano all’interno di un’autovettura.

· Ieri, una folta rappresentanza degli abitanti della periferia di Latakia ha cercato di spiegare le quotidiane sofferenze a cui è sottoposta da parte dei gruppi terroristi a una delegazione di osservatori ONU mentre questi ultimi attraversavano i villaggi, ma la delegazione non li ha degnati di attenzione, al punto che una delle vetture su cui viaggiava ha persino investito tre degli abitanti, due di loro sono in pericolo di vita. Trattasi di Amer Mohammad Zamzam , Mustafa Hikmat Kamel e Essam Maaruf Mohammad.

· Una delegazione degli osservatori ONU ha visitato il quartiere Midan di Damasco e la stazione di polizia, ha poi preso visione del luogo dell’esplosione terrorista avvenuta di recente ad opera dei terroristi. Un’altra delegazione ha visitato Harasta ed un’altra ancora le località di Homs, Talbiseh, Rastan e Teldo, nella periferia di Homs.

· Nel contesto delle operazioni criminali mirate a colpire le personalità di spicco della società siriana, un gruppo terrorista ha assassinato il dott. Marwan Arafat, vicepresidente della Federazione del Calcio Siriano, mentre stava tornando dalla Giordania, tra il centro di confine Nassib e il villaggio Taibeh, nella periferia di Deraa. Nel vile attentato è rimasta gravemente ferita la moglie del dott. Arafat. La Federazione Generale dello Sport ha deplorato l’assassinio del Dott. Arafat, reputandolo un grave lutto per lo sport siriano, la perdita dolorosa di una delle personalità più importanti per le sue alte qualità morali e per la reputazione di cui godeva dentro e fuori la Siria.

· 145 cittadini siriani che erano stati adescati dai gruppi terroristi, si sono spontaneamente consegnati con le loro armi alle autorità competenti della città di Homs. A queste persone, a cui non sono stati imputati omicidi, le autorità hanno condonato i reati di possesso di armi, vandalismo e attentato alla sicurezza del Paese, consentendo loro di tornare allla loro vita normale, dopo aver regolarizzato la loro posizione.

· Numerosi mass media hanno diffuso e trasmesso dichiarazioni attribuite al Generale Robert Mood, con cui egli avrebbe detto che la Siria è entrata in una guerra civile e che il governo siriano avrebbe perso il controllo di molte aree. Il Ministero degli Affari Esteri e degli Espatriati ha chiesto spiegazioni in merito all’ufficio del Gen. Mood a Damasco, dove il suo vice, Martin Griffith, ha ribadito che queste dichiarazioni non sono mai state rilasciate dal Generale Mood né da nessun’altra persona dell’ufficio della missione degli osservatori ONU in Siria.

· Una fonte ufficiale del Ministero degli Affari Esteri e degli Espatriati ieri ha dichiarato che: ” L’Amministrazione americana persegue la sua flagrante ingerenza negli affari interni della Repubblica Araba Siriana e il suo appoggio manifesto ai gruppi terroristici armati, occultandone i crimini e distorcendo la verità sulla Siria davanti alle Nazioni Unite e ricattando gli altri Paesi e la comunità internazionale, per metterla con le spalle al muro ed isolarla e mirare alle sue posizioni, alla sua fermezza, alla difesa del popolo siriano e alle sue istituzioni.

Fonte: Ambasciata di Siria a Roma

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Con un intervento militare la Siria potrebbe trasformarsi nel nuovo Iraq?

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A distanza di molti mesi dall’inizio dello stato d’agitazione in Siria, nel febbraio 2011, che ha seguito a catena tutte le altre sollevazioni che hanno interessato molti Paesi arabi, la situazione non tende a migliorare, sicché l’attenzione internazionale ha cominciato a concentrarsi sulla regione che gli arabi chiamano Bilâd ash-Shâm.

Le manifestazioni di protesta in Siria sono andate aumentando e si sono diffuse in diverse città del paese vicino-orientale. Esplicatesi sin da subito in atti violenti, sono sfociate in sanguinosi scontri tra esercito e “attivisti” (progressivamente sostituiti da “gruppi armati”), ed hanno come obiettivo quello di fare “pressione” sul presidente Bashâr al-Asad affinché realizzi riforme in senso “democratico”.

Queste rivolte nascono dieci anni dopo l’inaugurazione di “programmi di sviluppo” attuati attraverso grandi finanziamenti volti allo sviluppo di città come Aleppo e Damasco: nonostante tutti i problemi, secondo una recente relazione congiunta di ambasciate e consolati sull’analisi socio-economica e del mercato turistico, la Siria ha visto una chiara crescita (1).

L’opposizione è alquanto divisa al suo interno.

Il gruppo di opposizione principale è il Consiglio Nazionale Siriano (CNS), una coalizione di sette gruppi di opposizione, la quale, sebbene abbia ottenuto un “riconoscimento internazionale” (vale a dire occidentale), è molto criticato per essere frammentato al suo interno, non riuscendo tra l’altro ad ottenere l’approvazione dei gruppi di minoranza.

L’Esercito Libero Siriano si è trasformato in un gruppo di coordinamento per coloro che hanno deciso di andare nelle strade con le armi per combattere il governo. Allo stesso tempo è molto criticato negli stessi ambienti dell’opposizione per non essere capace di darsi un comando unificato.

Il Comitato di Coordinamento Nazionale invita al dialogo con al-Asad e, a differenza di alcuni membri del CNS, si oppone fortemente all’intervento straniero in Siria.

Il 26 febbraio un “Gruppo patriottico siriano” è nato dalla scissione operata da ex membri del Consiglio Cittadino Siriano.

La divisione tra le varie componenti non permette consente all’opposizione di ricevere l’appoggio internazionale necessario per far cadere il regime ba’thista. Molti inoltre vedono che il CNS non ha un programma economico o una “visione” per il futuro della Siria, mentre le dispute interne al Consiglio e la conseguente mancanza di un capo minacciano di lasciare il Consiglio privo della capacità di agire.

Il quadro regionale e internazionale è molto complesso ed esiste il rischio che il tentativo di  rivoluzione si converta in una guerra civile di lunga durata. Le condizioni per infiammare una regione turbolenta (per fattori endogeni ed esogeni) ci sono tutte, e possono trovare plastica rappresentazione nell’attuale fermento di tutto il mondo arabo.

In Siria, come in tutti i paesi interessati dalla “primavera araba”, si gioca una partita tra fazioni opposte che hanno visioni differenti rispetto alle alleanze internazionali. Per questo, interventi diretti armati come avvenuto in Libia sono molto difficili da portare a termine; di fatto la Libia aveva, e ancora oggi ha, una configurazione tribale che prescinde in buona parte dal dibattito tra le diverse interpretazioni dell’Islam.

Analizzando poi la composizione della popolazione siriana, si può notare che il 70% è sunnita, mentre il restante 30%, invece, è sciita; in questo 30% rientra la comunità alawita, considerata da molti come la corrente più eterodossa dell’Islam, che occupa gran parte dell’esercito e dei servizi segreti.

In base all’art. 3 della Costituzione, l’appartenenza religiosa del Presidente deve essere quella musulmana (non è precisato se debba essere sunnita o sciita) e la legislazione ha come fonte principale la giurisprudenza islamica. La Siria non è dunque, come vorrebbe un abusato luogo comune, uno “Stato laico”. E’ un paese costituzionalmemnte musulmano che, proprio in quanto tale, prevede la convivenza di diverse comunità confessionali. E su questa varietà confessionale si innesta la rete delle solidarietà con gruppi e governi di altri paesi del Vicino Oriente.

La Turchia sostiene i sunniti in generale; i paesi del Golfo appoggiano politicamente e finanziariamente le correnti wahhabite e salafite; le tribù sunnite dell’Iraq si mobilitano per fornire armi ai ribelli, compresi i gruppi radicali come quelli “vicini ad al-Qâ‘ida”. Dall’altra parte, tanto Hezbollah quanto la Repubblica Islamica dell’Iran sostengono principalmente gli sciiti, il che giustifica la simpatia iraniana per l’attuale dirigenza siriana (il presidente Asad appartiene alla minoranza alawita).

La Siria ricopre un’area strategica di 185.180 kmq al centro del Vicino Oriente; confina a nord con la Turchia, ad est con l’Iraq, a sud con la Giordania e ad ovest con Israele e il Libano. Ad ovest la Siria si affaccia sul Mediterraneo. Questo territorio costituisce perciò un elemento fondamentale nello sviluppo degli avvenimenti presenti e futuri in tutta l’area vicino-orientale e anche a livello internazionale. Con il passare dei giorni, il rischio che la Siria si trasformi nel nuovo Iraq è sempre più concreto. La confusione che si è creata negli ultimi mesi non fa sperare in qualcosa di buono, e ogni giorno arrivano notizie sempre più preoccupanti.

La Lega Araba intanto prova a gestire la crisi per ridurre il ruolo delle Nazioni Unite e dell’Occidente in generale, provando a cementare il mondo arabo sotto un’unica guida; ma l’invio dei suoi osservatori sul territorio siriano si è dimostrato più difficile del previsto, con il conseguente fallimento della missione dovuto in buona parte alla sua disorganizzazione (2).

Nonostante le condanne delle Nazioni Unite e delle grandi potenze mondiali, sia le sanzioni inflitte al governo siriano – quali, ad esempio, la decisione di ritirare tutti gli ambasciatori dalla capitale Damasco, di bloccare i trasporti o di “congelare” i fondi siriani all’estero – sia i passi compiuti dal governo – quali il referendum costituzionale (3), dall’esito positivo, che dovrebbe aprire la porta al multipartitismo con il conseguente cambio della costituzione e le annunciate elezioni legislative – non sono stati sufficienti per frenare le violenze e calmare gli animi.

I combattimenti si sono concentrati soprattutto in alcuni quartieri della città di Homs, occupati dai guerriglieri “ribelli”, ed altre rivolte vanno propagandosi a poco a poco in tutta la Siria, nonostante buona parte del paese continui a essere favorevole al presidente.

Nei mesi scorsi, dopo la caduta del regime libico e la cattura di Gheddafi, l’attenzione si era spostata verso la Siria. Considerando l’esito “positivo” della missione in Libia, l’opinione pubblica, soprattutto quella israeliana, riteneva che il governo di al-Asad avesse le ore contate. Forse, però, non si era tenuto conto di fattori interni ed esterni, soprattutto del fatto che l’esercito siriano ha un’organizzazione e una forza nettamente superiore a quella che avevano i Libici.

Intanto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite continua a discutere senza trovare una soluzione, così nessuna risoluzione viene adottata a causa del veto di Russia e Cina che non desiderano interferenze negli affari interni siriani. Queste due potenze, oltre a rifiutare la destituzione del presidente siriano, perseguono l’obiettivo di una tregua, in modo che le violenze si fermino e le due fazioni, governo e opposizione, valutino la fine dello sterminio di civili innocenti.

La scelta russa e cinese è naturalmente dettata da valutazioni d’ordine geopolitico e militare: così l’Onu appoggia il piano della Lega Araba, incluse le dimissioni di al-Asad e probabili nuove sanzioni, mentre le proposte russe esposte dall’ambasciatore Vitalij Ciurkin vengono ignorate. Russia e Cina difendono con particolare convinzione il principio di sovranità; le visite dell’ex ambasciatore cinese in Siria, Li Huaqing, e del ministro degli Affari esteri russo e responsabile dei servizi segreti Lavrov, ne sono la prova: qualsiasi risoluzione che preveda un cambio al potere non potrà essere accettata.

La Siria ospita nel porto di Tartus l’unica base navale della Marina russa fuori dal territorio dell’ex Unione Sovietica, che è rifornita di armamenti russi (4): negli ultimi mesi sono giunte navi cariche di munizioni ed è stato firmato un contratto da 550 milioni di euro per 36 aerei militari YAK 130, velivoli ultraleggeri utilizzati per addestrare i piloti militari o per attacchi leggeri. Inoltre sono stati acquistati AK-47, RPG ed armi ad alta tecnologia, ossia missili antinave Yakhont, KH-31A e KH-31P. Questi missili, codice NATO SS-N-26 e OTAN AS-17 Krypton, sono sistemi balistici di alta tecnologia. Il Yakhont è un sistema ad alta tecnologia che viaggia a una velocità intorno ai 2000 Km/h a tratti variabili tra i 5 – 10 metri della superficie marina fino ad un altezza di alcune migliaia di metri, in grado di essere lanciato da un unità di superficie, aerei o batterie costiere ad alta mobilità, con una visibilità ai sistemi radar estremamente bassa e capace di raggiungere distanze come 120 kilometri e una velocità supersonica di 3 Mach, quasi tre volte la velocità del suono, procedente a filo della superficie marina e molto difficile da neutralizzare. I KH-31P, invece, nascono come missili antiradar costruiti per distruggere i radar Phased-Array del sistema Aegis della marina americana, cioè per la difesa contro i radar che guidano gli aerei, i velivoli o i missili.  Quindi, queste armi non sono solo capaci di difendere da attacchi esterni per mare, ma anche di contrattaccare, arrivando a obiettivi strategici lontani, contro paesi come la Turchia o Israele.

Nel frattempo s‘inizia a valutare anche l’ipotesi di un eventuale intervento militare in Siria per “porre fine alle violenze”. Ma sarebbe davvero la soluzione migliore? Che rischi comporterebbe questa scelta? Le conseguenze potrebbero avere un effetto devastante su tutta la regione vicino-orientale, causando reazioni a catena e destabilizzando tutta l’area, perché dal destino della Siria dipende l’intero equilibrio regionale.

Partendo dal quadro politico interno, oltre ai sostenitori del partito Baath, che ormai sono al potere da tre decenni, ed al fronte degli “Amici della Siria”, troviamo vari gruppi pronti a contribuire al “cambiamento” nel paese; i combattimenti non sarebbero quindi solo “tra alawiti e sunniti”.

La Siria, in questo contesto, dovrebbe affrontare anche chi, approfittando della situazione, creerebbe uno scenario di assoluta confusione come i gruppi terroristici “affiliati ad al-Qâ‘ida” (5), che dal vicino Iraq, secondo fonti dei servizi d’informazione siriani, hanno iniziato a combattere la loro presunta “guerra santa”, in realtà un’azione armata settaria.

Un altro problema regionale sarebbe quello dei Curdi. Il PKK, dopo essere stato messo al bando dalla Turchia, dov’è dichiarato “gruppo terrorista”, negli ultimi anni avrebbe trovato appoggio e rifugio in Siria. Un centro di studi strategici turco è arrivato alla conclusione che la Siria sta fornendo libertà di manovra ai membri curdi del PKK. L’Orsam (6)  è giunto a tali conclusioni esaminando informazioni della stampa turca, valutando le agenzie vicine al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e dichiarazioni del capo del Partito dell’Unione Democratica (PYD), il referente della stessa formazione indipendentista in Siria.

“Negli ultimi mesi la Siria ha lasciato all’organizzazione del PKK uno spazio d’azione, anche se non allo stesso livello che negli anni Ottanta e Novanta”, scrive il Centro, sintetizzando le proprie conclusioni. Analizzando in particolare le dichiarazioni “dei leader del PKK e PYD”, si conclude che c’è “un crescente avvicinamento tra la Siria e il PKK”; l’altra conclusione è quella che “dentro un quadro di sforzi per esercitare un’influenza sui curdi siriani, c’è stata una rivalità tra PKK il nord dell’Iraq (in particolare con il KPD)”.

Le valutazioni confermano una delle preoccupazioni che per molto tempo hanno frenato la Turchia prima di mettersi contro il presidente Bashar al-Asad: oltre al pericolo di una guerra civile dai tratti settari e all’esodo di profughi verso i propri confini, Ankara teme la questione dell’indipendentismo curdo, antico problema che ha in comune con Damasco fino alla parte orientale, lungo 900 km di frontiera. Nell’ottobre del 1998, la Turchia e la Siria firmarono l’accordo di Adana, in base al quale Damasco allontanava il PKK dai suoi territori. La firma arrivò dopo che i due paesi erano stati vicini al punto di rottura, con le minacce turche di un intervento militare se la Siria avesse continuato a dar rifugio ai membri del PKK: pertanto, l’appoggio attuale, riportato dal centro Orsam, sarebbe una replica di tali accuse.

Furono le minacce belliche turche a dare il via all’odissea del leader del PKK, Abdullah Ocalan, che finì in mano degli agenti turchi un anno dopo, vicino all’aeroporto di Nairobi. Con l’ondata di proteste e la crisi in Siria, Ankara ha dissolto qualsiasi “vincolo fraterno” con Damasco, che era stato firmato dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan con al-Asad negli, e alla fine dell’estate ha così assunto una posizione contraria al governo siriano, consacrando tale divergenza  con delle sanzioni annunciate a Novembre. La stampa turca ha lanciato più volte l’allarme riguardo una strumentalizzazione del Pkk da parte di al-Asad ed una strategia filosiriana pilotata da Ocalan dall’ isola-carcere di Imrali.

Secondo informazioni del controspionaggio turco, il PKK avrebbe anche provato a promuovere un’ondata migratoria verso la Turchia. A livello ufficiale, le avvertenze o inquietudini turche rispetto alla Siria circa il fatto che quest’ultima potrebbe usare la carta dell’indipendentismo curdo per creare problemi alla Turchia erano sorte in autunno per bocca del ministro degli esteri Ahmet Davutoglu e del presidente della Commissione degli Affari esteri del parlamento di Ankara, Volkan Bozkir.

L’intervento militare in Siria quindi trascinerebbe tutta l’intera regione meridionale in un conflitto irrefrenabile. È plausibile che da tre decadi, ormai, il governo siriano sia in strette relazioni con i Pasdaran (Esercito dei Guardiani della Rivoluzione islamica), e perciò con la milizia libanese di Hezbollah e quella palestinese di Hamas. Si scatenerebbe perciò una guerra civile su molti fronti, ed inevitabilmente si troverebbero implicati altri paesi.

Secondo fonti d’intelligence, sembra che da alcuni mesi i Guardiani della Rivoluzione iraniana starebbero addestrando i generali siriani e fornendo armi alla Siria, offrendo cosi un aiuto all’esercito siriano. Però non sembrano essere gli unici stranieri operanti in Siria, perché rimettendosi a quello che riporta la pagina web dell’intelligence israeliana Debka file (7), dentro al territorio siriano ci sarebbero, oltre a vari gruppi armati procedenti dalla Libia, Turchia, Iraq ecc., anche unità di forze speciali britanniche e del Qatar, infiltrate in città come Homs, anche se non starebbero partecipando direttamente ai combattimenti, ma starebbero aiutando con assistenza tecnica e militare i “ribelli”.

Lo stesso Israele non è rimasto impassibile, e si sta preparando a qualsiasi evenienza, anche se l’opinione pubblica è titubante: queste perplessità, dissimulate dallo stato ebraico, sono il risultato di una presa di coscienza della pericolosità di armare una parte della “ribellione” in Siria, molto vicina ad al-Qâ‘ida e ad altri gruppi estremisti. Tel Aviv  nutre forti timori rispetto a una possibile affermazione dell’Islam “fondamentalista” al posto del presente governo siriano, preferendo quasi l’attuale situazione di “stallo”.

Lo stesso capo uscente di Hamas, Khaled Mesh’al, ha annunciato che appoggerà tutti quelli che si opporranno al governo siriano. Simbolo di un movimento islamico sunnita che da molto tempo godeva della protezione e dell’appoggio di Damasco, Hamas ha deciso a sorpresa di tagliare i ponti con il regime siriano, senza fare passi indietro (8). Insieme a Mesh’al, molti dirigenti di Hamas in esilio si sono trasferiti a Doha, nel Qatar, che si è trasformato nel nuovo sponsor politico del movimento palestinese, assumendo un ruolo concorrenziale nei confronti dell’Iran. Anche il numero due dell’organizzazione, Musa Abu Marzuk, ha dichiarato dal Cairo che seguirà la linea di Mesh’al e sarà sempre favorevole alla “rivolta” in Siria, proprio mentre era in corso la riunione degli “Amici della Siria” a Tunisi.

Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha acclamato la rivolta contro il regime siriano: “Saluto tutti i popoli della primavera araba. Saluto l’eroico popolo siriano in lotta per la libertà, la democrazia e le riforme”, ha detto di fronte a una folla riunita davanti alla moschea al-Azhar al Cairo, la scuola di teologia sunnita più importante. “No all’Iran, no a Hezbollah, perché la Siria è islamica”, ha risposto la moltitudine con un evidente riferimento alla composizione alawita, e quindi sciita, del governo di Damasco. L’allontanamento di Hamas dal regime siriano non è solamente il risultato di una ricollocazione politica, più pragmatica e “moderata”, rispetto a quella della precedente direzione di Mesh’al. Hamas non ha alcuna intenzione di sostenere “la democrazia e le riforme” in Siria, visto che i capi di Hamas, per molti anni a Damasco, ben protetti, non hanno mai interferito con la politica interna del paese. Hamas ha dovuto prendere una decisione di fronte al conflitto siriano, che assume sempre più le caratteristiche di un conflitto tra settari di varia appartenenza e la maggioranza (sunnita, sciita, alawita, cristiana) della popolazione.

Nelle decisioni di Hamas, ha avuto un ruolo fondamentale anche il Qatar, stretto alleato degli Stati Uniti, che, dopo aver promosso l’intervento della NATO in Libia, ha visto rafforzato il proprio status nella regione. Doha finanzia i Fratelli Mussulmani ed altri movimenti settari in Siria, Egitto, Libia e Tunisia. Hamas – nata nel 1987 grazie ai Fratelli Mussulmani di Gaza – ha compreso che la sua “svolta moderata” godrà di un generoso contributo economico da parte dell’emiro del Qatar.

In tutto questo intreccio politico–militare, quali sarebbero le soluzioni della “crisi siriana” in grado di evitare un totale caos ed il massacro?

Senza dubbio la cosa più importante, in questo momento, è creare una situazione di fiducia per cui la Croce Rossa Internazionale (CICR), la Mezzaluna Araba Siriana e le associazioni umanitarie possano arrivare in tutto il paese, in una situazione di assoluta sicurezza, attraverso “corridoi” creati per la volontà di entrambe le parti, governo e opposizione, per poter assicurare la necessaria assistenza nei luoghi più colpiti e curare la popolazione evacuando i malati più gravi. Creare questi canali o una “zona cuscinetto” attraverso la Turchia o altri paesi circostanti dovrebbe però essere un’opportunità per poter aiutare a livello medico-sanitario la popolazione, non un’occasione per introdursi militarmente nel territorio siriano e dispiegarvisi logisticamente: è per questo che il governo siriano si è fatto sospettoso, e non è facile che accetti una situazione simile, specie di lunga durata. Inoltre non possiamo dimenticare che, come sottolinea l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, una questione molto delicata è quella dei profughi, che dopo molti mesi di conflitto hanno iniziato un esodo di massa, muovendosi verso le frontiere libanesi e turche. La stessa portavoce dell’organizzazione spiega che è stato organizzato un piano ben definito per la Siria (9), specie alle frontiere, per assistere con cibo e aiutare le persone in fuga, ed aggiunge che gli ultimi report contavano approssimativamente più di trentamila rifugiati.

Un’altra missione congiunta dei paesi della Lega Araba correrebbe il rischio di risolversi in un altro fallimento, sia per la disorganizzazione dimostrata in quella precedente, ma anche per la difficoltà di inviare persone in grado di valutare la situazione in maniera neutrale, senza influenze di alcun tipo. Per questo si è pensato a Kofi Annan: una personalità che potesse rappresentare l’ONU e allo stesso tempo la Lega Araba poiché visto come figura estranea da ogni tipo di pressione e interesse. La missione dell’inviato speciale, ex segretario generale delle Nazioni Unite, come osservatore nelle zone di guerra ha come obiettivo ufficiale quello di “fermare il massacro di civili”.

La missione di Annan si è rivelata più dura del previsto e non è facile ristabilire una situazione cosi complessa. Egli stesso ha esortato il governo e l’opposizione a lavorare insieme per una soluzione che rispetti le aspirazioni del popolo siriano per proporre, un poco per volta, un dispiegamento di “Forze di Pace” delle Nazioni Unite. Nelle sue dichiarazioni dal Cairo, dove si trovava in visita prima di viaggiare verso Damasco, Annan ha affermato che “i siriani sono un popolo ritrovatosi intrappolato nel mezzo di un conflitto”.

Così, in questo momento più che mai, vi è il bisogno di trovare una soluzione rapida poiché con la “riconquista” di Bab al-Amru da parte dell’esercito siriano che ritorna a controllare la zona strategica dei ribelli, il rischio di attentati verso i civili e militari, con lo scopo di destabilizzare il paese e creare confusione, è sempre più concreto.

Una soluzione interessante potrebbe essere quella di ottenere il consenso per dispiegare nel Paese forze speciali russe in collaborazione con l’esercito siriano, per aiutare a restaurare l’ordine e la tranquillità. Un’ipotesi questa che, secondo vari osservatori russi (10), potrebbe essere plausibile soprattutto dopo la “riconquista” del Cremlino da parte del presidente Putin. Questa sarebbe un’opzione da considerare perché l’alleanza tra le due nazioni è molto forte e la stima reciproca tra i due governi faciliterebbe la “pacificazione”.

Nelle ultime settimane ci sono stati movimenti nei vari territori confinanti con la Siria, dove secondo l’agenzia americana Nsnbc (11)  gli Stati Uniti hanno consegnato all’Arabia Saudita 84 nuovi Boeing F–15 Fighter con i quali andrà a potenziare significativamente la sua flotta già esistente. Allo stesso tempo, emerge attraverso un report giordano secondo il quale, negli ultimi mesi, un numero imprecisato di truppe statunitensi, ritiratesi dall’Iraq, sono state dispiegate nella base aerea militare giordana e nella zona di al-Mafrag, lungo la frontiera sirio-giordana (12). Notizia confermata anche da fonti vicine all’ex primo ministro giordano Marouf Bakhit, secondo il quale i militari statunitensi si sarebbero stabiliti in una zona cuscinetto vicino al confine nord, situata intorno alle città di al-Mafrag e Ramtha, che si estende approssimativamente per 30 Km di longitudine e 10 Km di profondità.

Come possiamo vedere, mentre si cerca di trovare una soluzione diplomatica al problema, si prende in considerazione anche qualsiasi altra eventualità. Questo, sempre con l’idea chiara che la Siria, militarmente parlando, non è una “preda facile” come la Libia.

L’esercito siriano è sicuramente più forte e organizzato di quello libico. A differenza di quello libico, la sua competenza lo avvicina a eserciti di rilievo come quello turco o iraniano. Arrivare al punto di dover intervenire militarmente sarebbe così un rischio troppo pericoloso per gli occidentali. Senza dimenticare che i costi di un intervento sarebbero troppo onerosi in tempi di “crisi”. E anche con l’appoggio di Israele, che sarebbe con molta probabilità coinvolto in un conflitto, c’è il rischio di perdere completamente il controllo della regione vicino-orientale in caso di mancato successo.

E mentre molti paesi occidentali continuano a lavorare sostenendo che la soluzione migliore per “fermare le violenze” sarebbe una “transizione politica” per “isolare il regime” – tagliando i flussi principali d’introiti e convincendo l’opposizione a unirsi nell’ambito di un piano di transizione che possa lasciare spazio a tutti i siriani di qualsiasi fede ed etnia -, il presidente siriano ripete alla nazione che “la Siria continuerà in maniera determinata a realizzare le riforme e a combattere il terrorismo appoggiato dall’esterno”, denunciando la “cospirazione straniera” contro il paese (13). Il presidente afferma infatti che “il popolo siriano, che in passato ha contrastato con successo le cospirazioni straniere, ancora una volta ha dimostrato la sua capacità di difendere la nazione e costruire una nuova Siria attraverso la determinazione per realizzare le riforme insieme con la lotta contro il terrorismo appoggiato dagli stranieri”.

In tutto questo, l’ipotesi più gradita da tutte le nazioni sarebbe quella d’inviare una “missione di pace ONU” in tutto il territorio, per garantire serenità ed equilibrio, ma per il momento mancano le condizioni per attuare qualcosa di simile.

Gli sforzi fatti dall’inviato speciale Annan sembrano aver avuto sinora un impatto relativamente positivo, dopo l’approvazione del suo Piano di Pace nel corso della II Conferenza degli Amici della Siria celebrata a Istanbul il 31 di marzo, la quale ha riconosciuto il CNS come interlocutore principale per la negoziazione nel paese e l’organizzazione dell’opposizione siriana.

L’ex Segretario delle Nazioni Unite ha dichiarato che, oltre all’appoggio di Russia e Cina, il presidente al-Asad ha accettato le sue condizioni chiedendo garanzie scritte in modo che anche l’opposizione sia costretta a rispettare le condizioni stabilite nel piano. Dopo aver analizzato dettagliatamente la proposta, il presidente siriano  ha deciso di seguire il “piano Annan” con i suoi sei punti chiave: l’apertura di un processo politico che includa le aspirazioni e le preoccupazioni del popolo siriano; la cessazione di ogni tipo di violenza da parte di tutte le fazioni e sotto la stretta sorveglianza delle Nazioni Unite; garanzie per l’accesso agli aiuti umanitari; la liberazione dei prigionieri politici incarcerati; libertà di lavoro per i giornalisti in tutto il paese; il rispetto da parte delle autorità verso qualsiasi associazione e le manifestazioni pacifiche.

Il Piano, che doveva entrare in vigore il 10 di aprile, e che è stato posticipato al 12 aprile, ha incotrato alcuni problemi e di conseguenza non è stato possibile attuarlo. Le violenze, anche se in quantità minore di quelle registrate prima della tregua, non hanno cessato in nessun istante dall’entrata in vigore del cessate il fuoco.

Solo in alcune zone del paese si è notato un lieve cambiamento; in altre, anche se le fonti si contraddicono, gli scontri armati sono aumentati. Secondo il Comitato di Coordinamento Locale dell’opposizione siriana – smentito categoricamente dal governo siriano, che, sebbene informi tramite i suoi canali, non viene assolutamente creduto dai media occidentali – “il regime continua ad uccidere le persone”, molte delle quali nella zona di Idlib, nel confine nord-est con la Turchia, a Daraa nel sud, e bombarderebbe anche la zona di Homs con carri armati ed elicotteri… Inoltre i combattimenti si sarebbero spostati sia verso la frontiera libanese, dove ufficiali libanesi confermano scontri a fuoco tra ribelli ed esercito siriano (14), sia all’interno del Libano con manifestazioni e scontri tra fazioni pro-Asad e gruppi contro il regime.

La Comunità Internazionale ed Annan cercano di operare pressioni sulle due fazioni affinché si rispetti il Piano di pace il prima possibile, sperando di ottenere passi in avanti verso una soluzione stabile. La paura che si tratti di mera retorica è grande e alcuni sostengono l’idea che la relativa pausa – interrotta dalla “strage di Houla” (attribuita a senso unico al governo dai media occidentali e da Aljazeera) – sia stata solo una possibile scusa, sfruttata dall’opposizione, per riarmarsi più e meglio di prima.

La preoccupazione tra i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite davanti alle difficoltà è crescente, soprattutto dopo che i primi membri appartenenti alla “equipe iniziale” di osservatori dispiegata in Siria, dopo aver approvato la risoluzione 2042, ha incotrato molte difficoltà.

Per questo, dopo aver verificato che il governo siriano non ha completato il ripiegamento delle forze militari e delle armi pesanti dalle città, le Nazioni Unite, dopo aver tenuto un colloquio con il governo siriano stesso, il 21 aprile, hanno elaborato e approvato, all’unanimità, una risoluzione che autorizzi l’invio di una missione di 300 osservatori militari disarmati in Siria per comprovare che venga rispettato il cessate il fuoco accordato tra le parti.

Il programma, denominato ufficialmente “Missione di Supervisione delle Nazioni Unite in Siria” (UNSMIS), ha come obiettivo il dispiegamento sul territorio di osservatori internazionali che abbiano accesso a tutto il paese senza restrizioni, per un periodo iniziale di 90 giorni, ed abbiano la libertà di dislocarsi nelle diverse città ed intervistare i cittadini, come prevede la risoluzione 2043 del Consiglio di Sicurezza (15).

Nel frattempo, i primi sei osservatori internazionali, dislocati nel paese a partire dal 16 aprile, hanno ammesso le difficoltà che hanno affrontato perché le violenze non si fermano.

Le reazioni della Comunità Internazionale non si sono fatte aspettare: i Paesi arabi riunitisi a Doha durante il congresso dei ministri degli Affari esteri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, criticano il regime siriano che temporeggerebbe ad applicare il Piano di Pace dell’ONU, minacciando di armare ulteriormente l’opposizione.

La diplomazia occidentale, che continua a programmare nuove riunioni, parla di ostruzionismo e avverte che, se la situazione non cambierà, si dovrà intervenire con la forza.

Molto dura la reazione del capo di Hezbollah. Nella sua prima intervista dopo sei anni, concessa a Julian Assange per la televisione russa “Russia Today” (16), Sayyed Hassan Nasrallah ha invitato l’opposizione siriana al dialogo con il governo siriano, il quale ha sempre appoggiato la causa palestinese. Nasrallah ha avvertito che “l’unica alternativa è la guerra civile, esattamente quello che vogliono gli Stati Uniti e Israele”.

Anche il ministro degli esteri russo Lavrov sostiene che ci sono “Stati che fin dal principio del Piano di Pace di Kofi Annan hanno fatto e stanno facendo molto per far sì che esso fallisca”, e che “gli oppositori armati sono i responsabili per la persistente violenza che finora non ha permesso di adempiere pienamente al Piano di pace”.

Allo stesso tempo, il suo omologo siriano, Walid Muallem, parlando da Pechino con il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi, durante una visita ufficiale, ha dichiarato che il governo siriano rispetterà il Piano di Pace di Kofi Annan: “La Siria – ha aggiunto Yang – lo seguirà impegnandosi nell’attuazione del Piano di Pace”.

Nonostante siano passati ormai molti mesi, le soluzioni al “problema siriano” stentano ad arrivare. Nemmeno la riunione di Chicago della NATO è riuscita a proporre qualcosa di concreto. Solo il presidente turco Gul, invitando i vari Stati a prendere una posizione decisa, ha proposto di aumentare notevolmente il numero degli osservatori per far sì che il piano Annan non fallisca.

Intanto gli scontri rischiano di trascinare anche il Libano in una guerra civile sempre più estesa.

Siamo vicini ad un intervento militare?

Vista la situazione attuale di totale confusione e di continua instabilità, soprattutto a causa degli attentati, la cosa da evitare ora anche se per molti potrebbe essere la “soluzione”, è un ristagno in una logorante guerra civile, la quale devasterebbe la vita dei siriani.

 

Fonte:  traduzione e riadattamento dal sito dell’IEEE, http://www.ieee.es/contenido/noticias/2012/04/DIEEEO34-2012.html

 
 

 

NOTE:

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