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Channel: dalai lama livorno – Pagina 107 – eurasia-rivista.org
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Goldman Sachs finanzia la prostituzione di minori

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L’informazione non proviene da un sito alternativo, bensì dal “New York Times” di questo sabato e con la firma d’un rinomato giornalista, Nicholas D. Kristof.

Scrive quest’ultimo: “La più grande piattaforma per il traffico sessuale di giovani ragazze minorenni statunitensi pare essere un sito Internet chiamato Backpage.com”, un sito che gestisce gli annunci di prostitute [escort]. Ma, scrive ancora Kristof, il sito ha importante parte in causa nella prostituzione minorile. Il giornalista riferisce di numerosi interventi giudiziari e parlamentari e parla segnatamente di un’indagine giudiziaria in corso a New York, che vede protagonista una giovane di quindici anni “drogata, legata, violentata e venduta attraverso Backpage”.

Questo autentico negozio di ragazze è proprietà della società Villane Voice Media e, così come avviene per numerose società statunitensi, è difficile risalire ai proprietari.

Ed è proprio su questo punto che si è concentrata l’indagine di Kristof, il quale alla fine ha scoperto questo: “Abbiamo risolto il mistero. Pare che tra i veri proprietari ci siano società finanziarie, tra cui compare la Goldman Sachs con una quota del 16%”.

Kristof racconta ancora che, non appena la banca ha appreso che egli stava indagando sulla faccenda, si è affrettata a vendere le proprie azioni. Venerdì scorso dopo pranzo la banca ha chiamato Kristof per comunicargli che avrebbe firmato la cessazione della partecipazione alla direzione del sito.

Andrea Raphael, portavoce della Goldman Sachs, parla come un delinquente di seconda classe: “Noi non abbiamo influenzato in alcun modo la conduzione di questa compagnia”. Quindi, in sostanza, “ci siamo arrestati qui, noi non siamo altro che dei miserabili finanziatori, senza potere di decisione”.

Ma Kristof precisa che Scott L. Lebovitz, uno dei direttori manager della Goldman, è stato per quattro anni seduto al tavolo del consiglio di amministrazione della Village Voice Media, sino al 2010. Un pentimento? Non proprio. A quell’epoca, la situazione era insostenibile… poiché, a seguito di inchieste giudiziarie, il Congresso [americano, ndt] aveva avviato le prime indagini su questa società. Scott L. Lebovitz se ne è andato, ma i soldi sono invece rimasti.

[…].

Conclude Kristof: “Così, da oltre sei anni, Goldman detiene una partecipazione azionaria importante in una società nota per i suoi legami con il traffico sessuale, ed è stata seduta accanto ai dirigenti dell’impresa per quattro anni. Non c’è niente che ci possa far dire che Goldman abbia sfruttato la propria partecipazione al capitale azionario per spingere la Village Voice ad abbandonare l’attività legata agli annunci di escort o per verificare l’età delle giovani ragazze”.

 
 
Fonte: les actualités du droit-20minutes

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Un giallo politico in salsa greca

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Era il giugno del 2011 quando il settimanale greco “Epikera” rivelò per la prima volta i contorni di un presunto complotto ordito ai danni di Kostas Karamanlis, leader del partito di centrodestra Nuova Democrazia e primo ministro del paese ellenico dal 10 marzo del 2004 al 6 ottobre del 2009: stando a quanto riportato su “Epikera”, nel 2008, infatti, Karamanlis sarebbe scampato ad un attentato orchestrato da un “Paese alleato di Atene” (nome in codice “Pythia 1”) con lo scopo di spodestare (se non proprio di eliminare fisicamente) il capo del governo greco. L’operazione sarebbe stata sventata grazie ad una informativa girata al Servizio greco e redatta da un gruppo di agenti del servizio di controspionaggio, gruppo predisposto ad hoc perché a Mosca si erano resi conto che le conversazioni di natura privata tra Putin e Karamanlis erano state intercettate da spie di paesi stranieri alleati di Atene (1).

È dell’ultimo mese di marzo, invece, la notizia proveniente dalla Grecia riguardante la decisione di un pubblico ministero che, sulla base di nuove informazioni di cui è entrata in possesso la polizia greca, ha aperto un’inchiesta per far luce sul complotto.

Il complotto avrebbe avuto alla base una semplice ragione: punire le scelte filo-russe di Karamanlis in materia di politica energetica: già nel 2008, infatti, il governo greco stava negoziando il coinvolgimento della Grecia nel progetto South Stream, il gasdotto progettato da Gazprom e da Eni per portare il gas naturale russo in Europa.

Southstream contro Nabucco: la guerra fredda dell’energia

La Grecia, una nazione a cavallo tra due visioni del mondo e di interessi contrapposti: nel 1946 Atene fu lo scenario di una delle prime avvisaglie di Guerra Fredda quando, nel corso della guerra civile che imperversava nel Paese, Stati Uniti e Unione Sovietica si fronteggiarono; i primi per contenere l’espansione dei russi, i secondi per allargare la loro sfera di influenza oltre i confini degli stati del blocco orientale e puntare al controllo del traffico nel Mediterraneo. Quella guerra politica fu condotta con mezzi militari. Nel primo decennio del nuovo millennio Atene si ritrova ad essere l’ago della bilancia nella guerra fredda dell’energia tra il vecchio occidente, Stati Uniti ed Unione Europea, e Mosca: in gioco non c’è solo il controllo del Mediterraneo ma il controllo dei flussi energetici verso l’Europa; in campo non c’è il dispiegamento massiccio delle armi nucleari ma, bensì, le squadre dei tecnici preposte alla progettazione di gasdotti per il trasporto del gas in Europa: da una parte il progetto Nabucco, sostenuto da Stati Uniti ed Unione Europea, dall’altro il gasdotto South Stream promosso da Gazprom ed ENI.

Il Nabucco Gas Pipeline Project è nato nel 2002 con lo scopo approvvigionare l’Europa con il gas proveniente dalla zona del Mar Caspio (dal campo di Shaz Deniz in Azerbaigian, dal Turkmenistan e dal Kazakistan) a cui, stando al progetto, dovrebbe unirsi il gas proveniente dall’Egitto, Iraq ed Iran.

La realizzazione del Nabucco è stata inserita dalla Comunità Europea nel novero dei progetti infrastrutturali da mettere in opera in campo energetico e ritenuti di massima priorità: inserito nel Corridoio Sud (2), il progetto verrà finanziato con una cifra che si aggira intorno ai 200 milioni di euro nel programma EEPR (European Energy Programme for Recovery). Come dichiarato innumerevoli volte da Andris Piebals, commissario europeo per l’energia, il gasdotto Nabucco è fondamentale per la sicurezza energetica dell’Unione Europea e non può fallire (3).

Alternativo e contrapposto al Nabucco è il progetto South Stream, sviluppato dal monopolista dell’energia russa Gazprom e dall’italiana ENI, che il 23 giugno del 2007 firmarono un memorandum di intesa per la costruzione di questo nuovo gasdotto che attraverso il Mar Nero dovrà collegare la Russia all’Italia con una capacità massima di 64 miliardi di metri cubi. Questo primo accordo bilaterale permetteva alle due compagnie di soddisfare i rispettivi interessi: la Russia avrebbe fatto entrare in Europa il gas russo attraverso l’Italia evitando, così, di passare per l’Ucraina mentre l’ENI, il colosso energetico italiano, avrebbe potuto ambire ad una compartecipazione nello sfruttamento degli idrocarburi siberiani. Nel 2009 la Russia ha poi concluso accordi separati con Bulgaria, Ungheria e Grecia per allargare la compartecipazione al progetto anche a questi paesi.

Già, la Grecia. La Grecia di Karamanlis che, come ricordato in apertura di articolo, nel 2008 stava negoziando con Mosca il coinvolgimento nel progetto South Stream. Da qui il complotto. Da qui la volontà di far fuori, innanzitutto politicamente, il capo di Nuova Democrazia.

Una delicata partita a scacchi sullo scacchiere politico europeo

Attualmente in Grecia si gioca, quindi, una delle partite più importanti per il futuro dell’Europa. Rispettando la loro fama di eccellenti giocatori di scacchi, i russi cercano di porre sotto scacco la politica energetica della comunità europea. Perché il South Stream è innanzitutto un progetto di natura politica: la Mosca di Putin, che ha chiesto con fermezza al numero uno di Gazprom Alexei Miller di accelerare per iniziare i lavori di costruzione già a fine del 2012 (4) (anticipando, così, di un anno la data prevista dal progetto iniziale), intende bypassare i paesi invisi al Cremlino, come Romania, Polonia ed Ucraina, con l’obiettivo, proprio della propria politica energetica, di rifornire l’Unione Europea: il gasdotto ortodosso, così come è stato ribattezzato South Stream, poiché, aggirando le problematiche relative al passaggio dei tubi per i Paesi dell’Europa Centrale, porta Mosca al raggiungimento di un duplice obiettivo politico e strategico: legare il Vecchio Continente alle forniture di gas russo. Questa politica non piace, ovviamente, agli Stati Uniti, che già da tempo stanno cercando di contenere la presenza di Mosca nella regione: il 15 marzo 2005, per esempio, la Russia, ritrovata la tranquillità finanziaria, prese l’iniziativa e per attuare le proprie strategie firmò un accordo con Bulgaria e Grecia per la costruzione dell’oleodotto Burgas – Alexandroupolis, il primo a completo controllo russo e antagonista del progetto BTC (Baku -T’bilisi – Ceyhan) sostenuto dagli Stati Uniti. Questo tratto dovrebbe permettere al gasdotto South Stream di prendere la via dell’Italia.

Il South Stream non piace, dunque, ai nordamericani che appoggiano la messa in opera del Nabucco. Ma per quale motivo? Perché Putin grazie al gas russo è riuscito a portare dalla sua parte l’Italia, la Turchia (che ha concesso il transito dei tubi del gasdotto dalle proprie acque territoriali) e la Grecia, tre dei Paesi dell’Alleanza Atlantica di importanza strategica. Uno scenario da guerra fredda con la Grecia che gioca un ruolo strategico nella strategia del containment delle aspirazioni russe messo in atto da Washington. Dalle sorti greche dipende, quindi, una parte dell’abbraccio (altra parte è rappresentata dal gasdotto North Stream destinato a passare per il Nord Europa) russo all’Unione Europa.

La crisi greca, le pressioni sui governi e i presunti complotti.

Può la crisi greca (e quella italiana) essere un preciso piano di ritorsioni per le scelte energetiche che privilegiano il rapporto con Mosca piuttosto che la vicinanza agli Stati Uniti? Gli amanti delle teorie del complotto troverebbero presto una connessione tra il piano per far uscire di scena Karamanlis, lo scoppio della crisi greca, l’insediamento del “tecnico” Papademos, uomo della BCE e la privatizzazione della DEPA, la società pubblica che gestisce il gas in Grecia e che era interessata al metano che sarebbe dovuto transitare per il Corridoio Sud con il progetto ITGI (Interconnector Turkey – Greece – Italy), il tratto che avrebbe permesso al South Stream di giungere fino in Italia meridionale. Potremmo aggiungere al quadro il fatto che anche l’Ungheria, paese che ha scelto di legarsi a Mosca e che era stato avvertito dall’ambasciatrice statunitense a Budapest nel 2008 con una dichiarazione che esortava il governo di Budapest a ripensare il proprio appoggio al progetto South Stream, “ripensamento che sarebbe utile per il paese magiaro” (5), è sotto scacco (6).

L’unica notizia certa è che la crisi greca ha portato alla messa in vendita della DEPA, società pubblica monopolista nel settore gas che tramite DESFA controlla la rete di distribuzione interna. È una prassi normale per un Paese in crisi quello di vendere ai privati il patrimonio pubblico. Ma in questa situazione il quadro si complica: la DEPA è, infatti, implicata nel progetto relativo alla realizzazione del ITGI (Interconnector Turkey – Greece – Italy) che, legandosi al gasdotto South Stream, porterebbe in Europa l’oro blu russo. Non è un caso che l’unico interesse ufficiale per l’acquisto di DEPA sia arrivato dalla russa Gazprom: il controllo della rete greca potrebbe portare un vantaggio non trascurabile per Mosca nel risiko del gas, nella cosiddetta Guerra dei Gasdotti.

Il quadro si complica ulteriormente se si allarga l’obiettivo: il governo azero ha, infatti, recentemente escluso il progetto ITGI dal bando dei diritti di sfruttamento dei giacimenti di Shah Deniz II preferendogli il progetto TAP (Trans-Adriatic Pipelines), progetto appoggiato dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, che dovrebbe passare sempre attraverso la Grecia ma non prevede l’impegno di soci greci. Il vantaggio del TAP consiste nell’essere funzionale e compatibile con il gasdotto Nabucco, l’antagonista del South Stream.

Una manovra per riallineare la Grecia ai dettami di Bruxelles e contenere le mire russe?

In Grecia si continua a respirare aria di Guerra Fredda. Complotti annessi e connessi.
 
 
 


NOTE:

1. Fitzankis Joseph, Russians ‘uncovered plan to kill Greek prime minister’, http://intelnews.org/2011/06/17/01-739/

2. Prague Summit – Southern Corridor, 8 maggio 2009, documento consultabile al seguente indirizzo: http://www.eu2009.cz/assets/news-and-documents/press-releases/the-declaration—prague-summit–southern-corridor–may-8–2009.pdf

3. Nabucco can’t fail, says EU commissioner, http://www.euractiv.com/energy/nabucco-fail-eu-commissioner/article-185056

4. Gasdotto South Stream, Putin ne esige l’inizio entro il 2012, http://www.distribuzionecarburanti.it/articoli/gasdotto_south_stream_putin_ne_esige_l_inizio_ent.html

5. U.S. Ambassador urges Hungary to rethink Russia pipeline talks, http://www.politics.hu/20080912/us-ambassador-urges-hungary-to-rethink-russia-pipeline-talks/

6. Ad avvalorare la tesi del fatto che la crisi greca sia stata innescata da interessi internazionali è un articolo apparso nel lontano 1992 sul New York Times in cui venivano riportati gli stralci di un testo fondamentale conosciuto con il nome di Defense Planning Guidance a firma di Paul Wolfowitz in cui si afferma che il nostro primo obiettivo è di prevenire il riemergere di un nuovo rivale […] che ponga una minaccia all’ordine di quella posta all’allora dall’Unione Sovietica. Questa è una considerazione dominante che ci impegna a prevenire che una qualsiasi potenza ostile possa dominare una delle regioni le cui risorse siano sufficienti a generare una potenza mondiale. Le regioni in questione comprendono l’Europa Occidentale […]. Dobbiamo tenere attivi i meccanismi di deterrenza che impediscano a potenziali concorrenti anche soltanto di aspirare ad un ampio ruolo regionale o globale.

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Innovazione strategica e conflitto geopolitico

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Uno dei meriti indiscutibili dello studioso austriaco Joseph Schumpeter è quello di aver compreso il ruolo centrale della figura dell’imprenditore in un’economia capitalistica. Favorendo l’innovazione tecnologica, il mutamento dell’organizzazione della struttura produttiva e la diffusione di nuovi prodotti l’imprenditore promuove quella “distruzione creatrice” senza la quale la società di mercato sarebbe destinata a collassare. Ciononostante, secondo Schumpeter, lo stesso sviluppo del capitalismo, non avrebbe potuto non comportare, oltre ad una sempre maggiore ostilità nei confronti del “mercato” da parte dell’intellighenzia, la dissoluzione del legame sociale e al tempo stesso l’affermazione di una forma mentis burocratica – naturalmente contraria al mutamento sociale – , dacché per Schumpeter era inevitabile che i “capitani d’industria” venissero sostituiti da “tecnocrati” e burocrati che avrebbero soffocato l’iniziativa privata. (1)

Tuttavia, sotto questo aspetto, la storia non ha certo dato ragione allo studioso austriaco e il capitalismo, anche se oggi non gode di ottima salute, difficilmente si può ritenere sia sul punto di essere sconfitto dal socialismo. In effetti, gran parte dell’intellighenzia occidentale, una volta liquidati i valori della borghesia, si è mostrata tutt’altro che refrattaria all’ideologia della merce (ideologia che articola ormai la visione del mondo di qualsiasi strato sociale e che, mistificando l’idea stessa di libertà, riesce ad occultare gli effetti negativi della dissoluzione del legame sociale), tanto da fare l’apologia della società di mercato anche nelle sue forme più aberranti e ripugnanti. Inoltre, la rivoluzione dei manager, benché non abbia impedito la burocratizzazione del sistema sociale e la nascita di gigantesche tecnostrutture, ha saputo garantire all’economia capitalistica un “dinamismo” sufficiente per vincere tutte le sfide e le “guerre” del Novecento, compresa quella contro il “socialismo reale”.

D’altronde, è indubbio che il concetto di “distruzione creatrice” sia essenziale per capire la storia (geo)politica del Novecento, nonché la stessa fase (geo)politica che contraddistingue il nostro presente storico, poiché si può facilmente osservare che in quanto esso può significare non solo innovazione tecnologica e produttiva, ma anche e soprattutto innovazione strategica, non è affatto un concetto che valga unicamente per spiegare fenomeni socioeconomici, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere limitandosi all’interpretazione della teoria (economica e sociale) di Schumpeter. Al riguardo, anche Giuseppe Bedeschi, recensendo l’opera di Schumpeter Passato e futuro nelle scienze sociali, nota che lo studioso austriaco, che non era affatto un “nemico” del capitalismo pur prevedendone il declino, consiste nell’avere sottovalutato sia il ruolo dei ricercatori sia quello delle piccole imprese. (2) Ma, pur riconoscendo che si tratta di una critica almeno in parte condivisibile, è evidente che anche Bedeschi privilegia un’ottica economicistica che, non prendendo in esame i conflitti (geo)strategici, rende incomprensibile la storia del Novecento. Per rendersene conto, basta tener presente che la Grande Depressione della prima metà del secolo scorso terminò solo con la Seconda guerra mondiale (e analogo discorso si potrebbe fare, mutatis mutandis, per quanto concerne la relazione tra la Grande Depressione di fine Ottocento e la Grande Guerra). Ovverosia con una immensa (e terribile) “distruzione creatrice”, che di fatto fu una rivoluzione geopolitica che condusse al dominio degli Usa sul Vecchio Continente e alla contrapposizione tra la (nuova) talassocrazia d’Oltreoceano e la (nuova) potenza tellurica del “Continente Eurasiatico”, l’Unione Sovietica.

A tale proposito, si deve ricordare (anche a costo di ripetersi) che la Seconda guerra mondiale generò pure una rivoluzione (geo)economica e tecnologica. Dal punto vista (geo)economico, se la guerra fu una catastrofe per tutti i Paesi belligeranti, per gli Usa (e quindi per la potenza capitalistica dominante) invece fu un business eccezionale. Mentre l’Unione Sovietica (unica potenza , insieme con gli Usa, a potersi considerare veramente vincitrice) aveva subito colossali danni di guerra, che furono stimati a 128 miliardi di dollari, stando ai prezzi prebellici, tanto che nel 1945 il reddito nazionale dell’Urss era del 15-20% inferiore rispetto a quello del 1940, negli Stati Uniti dal 1941 al 1945 nacquero oltre 500.000 nuove aziende ed alla fine della guerra c’erano 18,7 milioni di occupati in più rispetto al 1939. Se il Pil degli Usa, che nel 1939 era poco meno di 100 miliardi di dollari, superava i 200 miliardi di dollari, i redditi degli americani sotto 1.000 dollari diminuirono dal 24% (1941) al 5,6% (1944) e quelli fra 3 e 4.000 dollari passarono dall11% al 21,5%, sicché non sorprende che i consumi complessivi degli americani aumentarono da 70 a circa 120 miliardi di dollari (caso unico tra i belligeranti) Ed è noto che a Bretton Woods (agosto 1944) si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale, liquidando il “blocco della sterlina”, che prima della guerra controllava un terzo del commercio mondiale. In sostanza, gli Usa erano diventati una “superpotenza” politica, militare ed economica e poterono quindi ristrutturare l’economia capitalistica mondiale in funzione dei propri interessi, senza correre il rischio di vedere annullati i “guadagni” ottenuti durante la guerra (e grazie alla guerra). (3)

D’altra parte, la battaglia dell’Atlantico, la (quasi totalmente sconosciuta dai “non esperti”) guerra aerea contro la Germania e la “guerra dei codici” fecero compiere, nel giro di qualche anno, un balzo prodigioso alla tecnoscienza: non solo aerei e missili, ma apparati elettronici, radar, calcolatori ed una miriade di nuove macchine e nuovi congegni sofisticati cambiarono radicalmente l’organizzazione produttiva – e quindi sociale – dell’Occidente. Fu però la capacità di “combinare” i diversi fattori, tecnologici ed economici, secondo un disegno geopolitico coerente e di “ampio respiro” ad assicurare agli Usa una posizione predominante. Ne è prova lo stesso fatto che, allorquando lo squilibrio tra impegni strategici e risorse disponibili minacciava di far perdere agli Stati Uniti il confronto con l’Unione Sovietica – tanto che a giudizio di non pochi intellettuali la “pressione” endogena (contestazione e crisi economica – la cosiddetta “stagflazione”) e quella esogena (guerra del Vietnam) potevano innescare un processo che avrebbe portato al crollo del capitalismo (da qui l’espressione “capitalismo maturo” – da intendersi “maturo per la rivoluzione”) -, fu proprio la nuova strategia di Nixon e Kissinger a rilanciare il “modello americano”: non solo “sganciando” il dollaro dal gold standard e “agganciandolo” al petrolio, per rimediare ad un deficit della bilancia commerciale che si sapeva essere non meramente “congiunturale”; ma specialmente mediante una applicazione spregiudicata della logica del divide et impera, che portò sì gli Usa a gettare la spugna in Vietnam (sebbene Nixon avesse promesso che l’aviazione Usa avrebbe impedito al Vietnam del Nord di sconfiggere “in campo aperto” il Vietnam del Sud), ma pure a un avvicinamento tra Washington e Pechino in funzione antisovietica, dividendo in tal modo il “campo nemico” ed evitando che si venisse a costituire un blocco eurasiatico, in grado di sfruttare le gravissime difficoltà in cui gli Usa si trovavano per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale.

E fu questo approccio geopolitico a “sostenere” sia la ristrutturazione del Warfare State sia il turbocapitalismo americano, all’epoca di Reagan, e a permettere agli Usa (e ai centri di potere dipendenti, in diversa misura, dal potere degli Usa) di trarre il massimo profitto dalle innovazioni tecnologiche in ogni settore della vita politica, sociale, economica e culturale dei Paesi occidentali. E non solo occidentali, in quanto si trattò di un mutamento non estraneo allo stesso crollo dell’Urss, non fosse altro perché rese ancor più problematico porre rimedio alle debolezze strutturali dell’Urss e dei Paesi dell’Europa orientale (immobilismo, burocratizzazione, fragilità dell’industria leggera ed eccessiva espansione dell’industria pesante, problemi derivanti dalle “aspettative crescenti” del ceto medio e dalle differenti nazionalità e così via). E non si può mettere in discussione nemmeno che, scomparsa l’Unione Sovietica, sia stato l’unipolarismo americano a “guidare” sia il processo di globalizzazione sia lo stesso sistema finanziario internazionale (con tutto quello che ciò implica sul piano sociale e politico), fino a quando si è giunti al “terremoto” del 2008 – logica conseguenza, in un certo senso, del fatto che la conquista dell’Heartland si è dimostrata essere al di là delle possibilità dell’America e dei suoi alleati, (4)

In questa prospettiva, è particolarmente significativo che anche un teorico come Gianfranco La Grassa, che analizza il rapporto tra economia e politica alla luce del conflitto strategico che contraddistingue il sistema capitalistico nelle sue molteplici configurazioni, osservi che «privilegiare l’aspetto finanziario rispetto all’industriale è comunque una scelta strategica, non dipende dall’intrinseca “bontà di comando” del denaro […] Dopo il crack borsistico del ’29, le prime misure furono di fatto finanziarie. La crisi divenne terribile e nel ’31-’32 si fece la fame, la disoccupazione raggiunse oltre un terzo della forza lavoro, il reddito reale crollò. Il New Deal (che comunque attenuò ma non risolse la crisi, superata solo con la guerra mondiale) non fu semplice operazione finanziaria. Si stampò moneta al fine di metterla in circolazione tramite la spesa pubblica (in deficit di bilancio). Ma questa manovra partiva dal presupposto della presenza di imprese industriali chiuse e di mano d’opera disoccupata, fenomeni giudicati effetto della carenza di domanda».(5) Inoltre, già negli anni Novanta La Grassa sosteneva che «il periodo attuale – e il nostro paese è paradigmatico al riguardo – vede gli apparati finanziari, cioè degli interessi afferenti alle loro funzioni e ruoli, più interessati alla globale circolazione di merci e denaro e ad una considerevole redistribuzione del reddito verso l’alto, con la conseguente distruzione, o drastico ridimensionamento, del Welfare State», e di conseguenza «la richiesta, tipica non solo dell’Italia, di governi “tecnici” non deve ingannare nessuno; si tratta semplicemente di tecnici finanziari […] non certo di dirigenti interessati, in senso schumpeteriano (corsivo nostro), all’innovazione, alla creatività ecc.».(6) In definitiva, secondo La Grassa, il fattore finanziario, in quanto tale, conta poco, qualora non vi sia una vera strategia di crescita dell’economia reale; crescita però che non è possibile se ne mancano i fattori o se questi sono “depressi” dall’asservimento di un Paese all’economia di un sistema sociale e (soprattutto) politico predominante.

Se questo però vale per un Paese, come l’Italia, “dominato” dai centri di potere atlantisti, è anche vero che il fallimento del modello unipolare statunitense ha generato un “contraccolpo geopolitico” di cui è pressoché impossibile prevedere quali saranno gli effetti, ma che non sembra potersi definire come una situazione internazionale caratterizzata da una “distruzione creatrice” tale da consentire agli Usa di costruire un nuovo ordine mondiale. Si è piuttosto in presenza, come più volte rilevato, di una sorta di “geopolitica del caos” che ostacola la formazione di un autentico multipolarismo, allo scopo di perpetuare l’egemonia americana (e, in generale, dei “circoli atlantisti”), sia pure a costo di una continua destabilizzazione tanto sotto il profilo (geo)politico quanto sotto il profilo sociale ed economico. Decisivo allora è mettere in evidenza che, dato che la “distruzione creatrice” – che in primo luogo (come si è cercato di mostrare) si deve intendere come innovazione strategica – è un tratto costitutivo del conflitto geopolitico, è quest’ultimo che sempre più condiziona il conflitto sociale e economico. Vale a dire che il conflitto sociale ed economico non può non essere “sovradeterminato” dalla geopolitica (nel senso che esso fa parte di una totalità di rapporti e di contraddizioni di carattere geopolitico che ne qualificano i modi e le variazioni), la quale, lungi dall’essere soltanto il terreno su cui si confrontano diverse “volontà di potenza”, in realtà struttura lo “spazio sociale e politico” anche in funzione di diverse Weltanschauungen e di diversi “pro-getti” sociali e modi di “essere-nel-mondo”.

E’ innegabile allora, se la nostra riflessione (si badi, solo riflessione, non certo analisi storica di fenomeni così complessi da richiedere ben altro spazio e ben altre competenze) è corretta, che oggi la “contrapposizione principale”, cioè la contrapposizione che attualmente conferisce “senso e orientamento” al conflitto strategico e che dovrebbe essere a fondamento dell’innovazione strategica, sia quella tra eurasiatismo e atlantismo. Il che poi altro non è che una particolare espressione di quella opposizione fra Terra e Mare che il processo di occidentalizzazione mostra di non essere in grado di cancellare o superare, benché si debba riconoscere che la “geopolitica del caos” non pare “destinata” a dar vita ad un nuovo Nomos, né ad originare un nuova guerra mondiale (ma si dovrà anche concedere che “non necessariamente” non significa né impossibile né improbabile). Comunque sia, non è affatto sicuro nemmeno che, ove si verificasse una autentica “distruzione creatrice”, quest’ultima porterà ad una definitiva occidentalizzazione del pianeta, posto che ritenere che l’innovazione strategica sia soltanto una caratteristica della società di mercato o della cultura “occidentale” significhi che non ci si è liberati da una ideologia economicistica, cioè dai pregiudizi tipici dell’homo oeconomicus.

 
 

Note

(1) Si veda Joseph A. Schumpeter, Il capitalismo può sopravvivere? La distruzione creatrice e il futuro dell’economia globale, ETAS, Milano, 2010.

(2) Giuseppe Bedeschi, Il rivoluzionario più audace è l’imprenditore, «Corriere della Sera», 7 marzo 2011, p. 32.

(3) Per questi dati vedi http://www.eurasia-rivista.org/seconda-guerra-mondiale-geopolitica-e-terra-bruciata/6507/ .

(4) Sulla questione dello squilibrio tra risorse economiche e potenza politico-militare come causa del declino relativo degli Usa, sempre utile, anche se in parte datato, Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.

(5) Si veda http://www.conflittiestrategie.it/2012/04/16/agenti-strategici-e-miopia-degli-economisti/

(6) Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve, Oltre la gabbia di acciaio, Vangelista, Milano, 1994, specialmente pp. 103 e ss.

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A Chicago il vertice per consolidare la “NATO Globale”

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Rick Rozoff, Global Research


Il 3 aprile, la segretaria di Stato Hillary Clinton ha affrontato solo la questione del comando dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico negli Stati Uniti, l’Allied Command Transformation e il World Affairs Council della Greater Hampton Roads, entrambi a Norfolk, Virginia, sullo sfondo dell’annuale Festival della NATO di Norfolk. Lo stesso giorno, cioè il giorno prima del 63° anniversario della fondazione della NATO, ha anche parlato al Virginia Military Institute di Lexington.

Il primo, conosciuto con il suo acronimo ACT, è il successore del Comando alleato dell’Atlantico del periodo della Guerra Fredda, e fu creato quale una delle tante iniziative post-11 settembre 2001 di George W. Bush e dell’allora segretario alla difesa Donald Rumsfeld. Gli alleati di Washington nella NATO, hanno diligentemente ratificato la decisione della sua creazione, in occasione del vertice del blocco militare a Praga, nella Repubblica Ceca, del 2002.

I tre siti scelti per la sua giornata piena di discorsi circa il ruolo unico degli Stati Uniti nel mondo, come alto argomento della diplomazia del paese, erano più adatti a un segretario alla difesa della nazione; la differenza tra i segretari di Stato e alla Difesa, e su questo argomento del triumvirato del Comitato per le forze armate del Senato statunitense, John McCain, Joseph Lieberman e Lindsey Graham, diventano sempre più esigue; salvo che il primo e il terzo pianificano le guerre e il secondo le attua.

L’indirizzo di Clinton presso la sede ACT è stato breve e superficiale, ma alla Conferenza del World Affairs Council 2012 della NATO, era notevolmente più approfondito e rivelatore. Ha sottolineato la continuità e lo sviluppo tra l’ultimo vertice della NATO a Lisbona, alla fine del 2010, e quello prossimo a Chicago di maggio. Il suo primo punto è l’ormai ultradecennale guerra in Afghanistan (e Pakistan), la prima guerra della NATO in Asia e la sua prima guerra terrestre, e la guerra più lunga nella storia degli Stati Uniti.

Mentre obbligatoriamente parla della fine della missione, tra due anni da oggi, ha anche indicato che il Pentagono e i suoi alleati della NATO non intenderanno mai lasciare totalmente il paese sotto assedio: “A Chicago, discuteremo la forma che il rapporto duraturo della NATO con l’Afghanistan prenderà. Speriamo anche che, nel momento in cui ci incontreremo a Chicago, gli Stati Uniti abbiano concluso i negoziati con l’Afghanistan su una partnership strategica a lungo termine tra le nostre due nazioni”.

Senza delineare la questione in ogni dettaglio, ciò a cui stava alludendo era che gli Stati Uniti manterranno tre principali basi aeree strategiche: Bagram, presso la capitale della nazione; Shindand, vicino al confine iraniano, e nei pressi della capitale della provincia di Kandahar, vicino al confine con il Pakistan. Le basi aeree saranno anche in grado di monitorare Asia centrale, Russia e Cina.

La NATO, che costruisce da zero un esercito e un’aviazione afgani interoperabili con l’Alleanza, sotto l’egida della NATO Training Mission-Afghanistan, non lascerà mai totalmente il paese. Clinton ha parlato in maniera blanda, con lo stile stereotipato e auto-elogiativo tipico di queste occasioni, sorvolando del tutto sui crescenti attacchi dei soldati afghani contro i loro omologhi della NATO, sul massacro di Kandahar dell’11 marzo, e sull’attacco mortale della NATO ad un avamposto pakistano, lo scorso novembre, con la conseguente chiusura delle vie di approvvigionamento della NATO nel paese. A suo parere, nulla di sbagliato è stato fatto in Afghanistan; tranne che la guerra di controinsurrezione avrebbe dovuto essere condotta con maggiore intensità l’anno prima. Nel 2004, mentre era senatrice di New York, chiese che le truppe statunitensi in Afghanistan fossero quintuplicate, passando dagli allora 12000 a 60000. Come segretario di Stato ha supportato la realizzazione di questo obiettivo, aggiungendone 40000 per buona misura. I due altri punti affrontati nel suo discorso alla Conferenza del World Affairs Council 2012 della NATO, erano “aggiornare le capacità della NATO nella difesa del 21esimo secolo” e “cementare ed espandere le nostre partnership globali”. I tre punti sono stati identificati come “gli obiettivi di Chicago.”

In termini di espansione delle capacità militari globali della NATO, sono in linea con il nuovo Concetto Strategico adottato al vertice scorso, evidenziando le preoccupazioni per gli sviluppi in Nord Africa e nel Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, affermando e minacciando con tutta la presunzione dovuta: “i Siriani subiscono un assalto orribile da un dittatore brutale. La fine della storia non è ancora stata scritta.”

Per quanto riguarda il ruolo della NATO, ha aggiunto: “L’Europa è il partner di prima istanza degli USA. Stiamo cooperando nel Medio Oriente e in Nord Africa, in Afghanistan, e raggiungiamo le potenze e le regioni emergenti, come le nazioni dell’Asia-Pacifico. “Dove il Pentagono sostiene l’Alleanza in modo sicuro.”

Per dimostrarlo, Washington e i suoi alleati della NATO hanno dichiarato “Collaboriamo su un nuovo sistema di sorveglianza del territorio dell’Alleanza, che utilizza i droni per fornire informazioni, sorveglianza, ricognizione e informazioni cruciali alle nostre forze.” E “a Chicago decideremo come utilizzare questo sistema come un hub per le operazioni congiunte”.

Come esempio inquietante del servilismo della NATO ai piani militari globali degli Stati Uniti, ha anche detto: “A Lisbona … abbiamo deciso di implementare un sistema di difesa missilistico per fornire copertura e protezione completa al territorio, alla popolazione e alle forze europei della NATO… A Chicago, cercheremo di promuovere questo obiettivo, sviluppando i nostri piani per la NATO esercitando il comando e il controllo delle attività di difesa missilistica.” La NATO è ora il principale partner nel sistema di intercettazione globale anti-missile di Washington.

L’ormai ottennale operazione di pattugliamento aereo della NATO su Estonia, Lettonia e Lituania, nel Mar Baltico – tutti confinanti con la Russia – attuata a rotazione dagli aerei da guerra occidentali, tra cui quelli statunitensi, non è stata tralasciata, poiché a Chicago “si metterà in evidenza la decisione della NATO di estendere il programma Baltic Air Policing…”

Riconoscendo tardivamente che lo scopo principale della guerra della NATO in Afghanistan è costruire un corpo di spedizione militare internazionale integrato, con 50 nazioni che contribuiscono con soldati, attrezzature, artiglieria e aerei alla forza internazionale di supporto alla sicurezza della NATO, per future guerre, Clinton ha detto che il vertice di Chicago migliorerà “l’impegno degli alleati alle esercitazioni congiunte e ai programmi di formazione, che approfondiscono la collaborazione che abbiamo sviluppato con il nostro lavoro comune in Afghanistan.”

Facendo seguito al secondo e terzo punto, ha dichiarato: “Più di 20 paesi non membri della NATO stanno fornendo truppe e risorse in Afghanistan. Altrove, lavoriamo con partner non membri della NATO per combattere la pirateria, contro l’estremismo, per mantenere la pace in Kosovo. E quando la NATO ha agito per far rispettare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nella protezione dei civili in Libia, lo ha fatto di pari passo con dei partner non membri della NATO, provenienti da Europa e Medio Oriente”.

Dopo le guerre in tre continenti – Jugoslavia, Afghanistan e Libia – e le operazioni navali permanenti nel Mar Mediterraneo e nel Mare Arabico, Clinton prevede che il vertice di Chicago permetterà di consolidare ed espandere il ruolo dell’unico blocco militare nel mondo come forza globale interventista: “A Chicago costruiremo questi partenariati, come promesso. Riconosceremo i contributi operativi, finanziari e politici dei nostri partner, in una serie di sforzi per difendere i nostri valori comuni nei Balcani, Afghanistan, Medio Oriente e Nord Africa.”

Riferendosi a George Marshall, che ha generosamente lodato più volte nel corso della sua lunga giornata in Virginia, Clinton ha promesso “faremo ancora una volta la scommessa giusta, una scommessa sulla leadership e la forza americana, proprio come abbiamo fatto nel 20° secolo, per questo secolo e oltre.”

La NATO è stata costituita 63 anni fa, apparentemente come un contrappeso all’Unione Sovietica in Europa centrale; 21 anni dopo la scomparsa dell’URSS, l’unica superpotenza militare del mondo e la sua segretaria di Stato, ne promettono la continuazione e l’espansione nel 22° secolo. E oltre.

FONTE: http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=30301

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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El mito de la “desconfianza” en las relaciones argentino-chilenas

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El 2 de abril se conmemorará en Argentina el 30º aniversario del conflicto del Atlántico Sur, que en 1982 enfrentó al país con el Reino Unido en una disputa por la soberanía de las Islas Malvinas, Georgias del Sur y Sándwich del Sur. En este clima y ante una creciente escalada diplomática entre ambos países, dos hechos centran las miradas en el otro lado de la Cordillera de los Andes, específicamente en Chile.

Por un lado, el arribo a Santiago-el 12 de marzo- del secretario de Estado de Relaciones Exteriores del Reino Unido Jeremy Browne- para una visita que se prolongó por dos días- no carece de significación si pensamos en el segundo hecho: la visita al mismo país, de la Presidenta argentina, Cristina Kirchner, tan solo tres días después.

Hablar de Malvinas en Argentina, o hacerlo en Chile, inevitablemente expande por el aire una extraña sensación de “desconfianza”. Este sentimiento no nace en el año 1982, sino que viene tomando fuerza y arraigándose en la opinión pública ya desde el siglo XIX; siglo que vio nacer a ambos países como Estados-Nación.

Las hipótesis de conflicto, eran en el siglo XIX y lo fueron en el siglo XX, moneda corriente en la relación entre Santiago y Buenos Aires. Ambos Estados, herederos de la Corona española por medio del principio uti possidetis iuris; han ocupado gran parte de su relación en la búsqueda de soluciones a los problemas limítrofes que se sucedían al momento de hacer valer los documentos históricos sobre el terreno, principalmente en torno a la Patagonia.

En 1978 el conflicto por el Canal de Beagle estuvo a punto de llevar a la guerra a los dos países. Finalmente en 1984 se firmó el Tratado de Paz y Amistad que determinó “la solución completa y definitiva” al fijar el límite en disputa, e incorporó el importante principio de solución pacífica para eventuales controversias entre ambos Estados.

Entonces, si en 1982 no nace la sensación de desconfianza, si es cierto que el conflicto del Atlántico Sur fue la oportunidad para que se enraizara con más fuerza en la opinión pública de cada país: Argentina, gobernada por una dictadura militar, enfrentó a una potencia militar de primer orden, sin contar con el apoyo chileno, quien gobernado por el dictador Augusto Pinochet optó por apoyar a Gran Bretaña.

Pero, ¿qué implicancias reales tiene en las relaciones bilaterales esta sensación de desconfianza?

La Concertación de Partidos por la Democracia (más conocida como La Concertación a secas) que gobernó Chile desde 1990 hasta el año 2010, emprendió un gradual distanciamiento de la postura de apoyo material y político al gobierno de ocupación colonial de las Islas-que había sido característico de la dictadura pinochetista- a una actitud más amistosa con Buenos Aires. De acuerdo a Cristian Leyton Salas esto ocurrió, primero, buscando establecerse como un tercer actor conciliador entre las partes, luego, convirtiéndose en un verdadero aliado de Argentina en su demanda por la restitución de las Islas a su soberanía.

Las relaciones actuales entre ambos pueblos latinoamericanos están en un gran momento histórico. Argentina fue el primer destino internacional del Presidente Sebastián Piñera, inmediato a las elecciones. Las relaciones a nivel subnacional han crecido de manera notable: el proyecto de integración física materializado en el futuro Túnel Internacional Paso Aguas Negras en la IV Región, ha sido entusiastamente promovido por el Gobernador de San Juan (Argentina) y por la Intendencia Regional de Coquimbo (Chile). En este sentido también sirven de ejemplo el anhelo de una pronta concreción de los Ferrocarriles Trasandino del Norte, Trasandino Central y Trasandino del Sur, agilizando las obras de infraestructura necesarias en cada país para facilitar la circulación entre puertos sobre el Atlántico y sobre el Pacífico. No obstante, parecerían ser sobre todo las relaciones en materia de defensa, las que disiparían la tesis de desconfianza entre los Gobiernos.

La Fuerza de Paz Combinada (iniciativa inédita en la región que demuestra el grado de cooperación entre las FF.AA.) constituye un gesto de enorme madurez en la relación binacional, que demuestra claramente la disposición chilena y argentina a construir un futuro común sobre la base de la cooperación por la paz.

La llegada de Jeremy Browne a Chile y sus críticas a Buenos Aires a raíz del conflicto por las islas Malvinas, reaniman la sensación de desconfianza; pero son los datos concretos, quienes nos demuestran que tal sensación solo existiría a nivel de la opinión pública.

La diplomacia británica fracasó a mediados de enero cuando envió a Brasil a su Canciller William Hague en búsqueda de apoyos. Chile, parecería ser la última carta que le queda jugar al Reino Unido. Pero el país transandino se mantuvo fiel a su postura: tener una relación constructiva con sus vecinos, y en este sentido apoyar “los legítimos derechos de la República Argentina en la disputa de soberanía relativa a la cuestión de las referidas islas” como ya fue manifestado en 2008 junto a otros países de la región.

La visita de Cristina Kirchner a Chile también puede leerse como una muestra más de la inexistencia de desconfianza a nivel oficial y constituye una refundación de las relaciones. Sebastian Piñera se expresó en este sentido: “el pasado ya está escrito, pero el futuro depende de lo que sepamos construir a partir de esta unidad”. En este marco, los programas acordados vinculados a la salud, la infraestructura y la educación, y los relativos a la conexión física como el arriba menciondo Túnel Internacional Paso Aguas Negras que vendría a concretar el anhelo de un corredor que una Porto Alegre, en el Atlántico brasileño, con Coquimbo en el Pacífico (acuerdo que naturalmente concentró los esfuerzos debido a que ambos países comparten la tercer frontera más larga del mundo-5.300 Km de largo) son los datos concretos sobre los que debemos pararnos al momento de evaluar las relaciones argentino-chilenas y constituyen también la base para arriesgar un pronóstico futuro.

La renovación del apoyo chileno al reclamo argentino por Malvinas y el compromiso de cumplir con la disposición de que barcos con la bandera de la islas no pueden ingresar a sus puertos (medida aprobada por la Unasur y el Mercosur) es otro hecho importante para tener en cuenta.

La consolidación y profundización de los vínculos a nivel gubernamental, será positivo para fortalecer los lazos entre las sociedades, y permitirá dicipar ese fantasma histórico de desconfianza, que como observamos, solo circula en la opinión pública. Son los gobiernos quienes tienen la responsabilidad de no hacer uso político de esta “desconfianza”, sentimiento que puede desatar otras fuerzas más peligrosas, que podrían poner un freno, a este proceso histórico de afianzamiento de relaciones mutuamente beneficiosas; único camino hacia la Patria Grande Latinoamericana.
 
 
 

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La nazionalizzazione argentina di YPF: un messaggio per l’Europa

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La nazionalizzazione da parte dell’Argentina della quota spagnola (Repsol) della compagnia energetica YPF, che diventa così proprietà di Buenos Aires, ci parla direttamente di geopolitica, di Europa e di crisi.

Più di una volta su queste pagine abbiamo affrontato la questione dell’importanza dello studio e di un approccio geopolitico nelle scelte a lungo termine non solo del nostro Paese, ma dell’Europa in generale. Questioni come quella sopra citata ci confermano insistentemente quanto detto in precedenza e sono un campanello di allarme che non solo chi governa, ma anche le famiglie universitarie, e le caste giornalistiche dovrebbero ascoltare con attenzione.

L’azione di un grande Stato come l’Argentina, in crescita e desideroso di spazio economico e geopolitico è non solo comprensibile, ma naturale: quando i rapporti di forza precedenti vengono meno, i nuovi equilibri vanno a modificare una situazione che limita la sovranità di un governo e di un popolo: in questo modo una classe dirigente scrupolosa compie scelte, a volte drastiche, ma che vanno nella direzione di riportare sotto il controllo della propria cittadinanza le attività economiche e le possibilità di crescita che un tempo sarebbero state di altri.

In una situazione di stallo geopolitico, vero o apparente, come quello vissuto per qualche anno dopo il crollo dell’Unione Sovietica, qualcuno si era illuso di cristallizzare tutto, rendendo azioni del genere impossibili, richiamandosi al feticcio del diritto internazionale. In realtà questa “dottrina” non è nient’altro che retorica buona nei momenti meno vitali, in cui chi impone l’equilibrio ha interesse nel dettare regole internazionali per garantirsi lo status quo. Quando lo status quo viene meno, come succede da qualche anno con le economie emergenti che sfidano la superpotenza USA, il diritto internazionale ritorna in soffitta e viene violato proprio da chi lo ha imposto: le regole dell’ONU vengono messe da parte e sono sostituite dagli interventi della NATO; così le concezioni e le strategie geopolitiche tornano apertamente a farla da padrone. E’ quello che sta succedendo nell’America indiolatina, è quello che succede nel campo d’azione statunitense, ma purtroppo è quello che non succede per quanto riguarda l’Europa.

E non si parla dell’espropriazione della multinazionale spagnola Repsol, ma della mancanza di strategia di lungo termine che lascia tutta l’Europa continentale in balia degli eventi.

Come è stato più volte affermato, la crisi economica di cui sentiamo il peso sulle nostre spalle, originata dal mito finanziario e dall’economia senza regole, ha come epicentro specifico gli Stati Uniti ed è particolarmente drammatizzata dal contemporaneo emergere di nuovi spazi geopolitici. Il crescente multipolarismo pone una sfida proprio all’Europa: continuare a non avere una visione geopolitica autonoma e quindi continuare acriticamente ad essere periferia del sistema atlantico, oppure sviluppare una propria strategia sovrana di lungo periodo cercando autonomia e compattezza e dialogando coi grandi spazi geopolitici, in particolare con quelli del condominio eurasiatico.

L’imposizione del sistema geopolitico atlantico – che aveva avuto origine con la fine della seconda guerra mondiale e con lo sbarco degli Usa sul territorio europeo – fu giustificato in funzione anticomunista durante la guerra fredda. Ma oggi tale sistema si rivela apertamente come uno strumento che consente agli USA di scaricare il peso della crisi sulla periferia (l’Europa continentale) e di preservare la loro prerogativa di centro geopolitico. Quando le nazioni emergenti, come è il caso dell’Argentina, reclamano e riconquistano il proprio ruolo e la propria sovranità, in una sistemazione geopolitica del genere a farne le spese sono proprio gli Stati e i popoli europei.

Non è un caso che dagli Stati Uniti di Obama, sempre pronti a difendere la libertà del mercato e quindi i diritti di investimento delle multinazionali, non una parola si è sino ad ora levata in difesa della società spagnola Repsol e dei suoi “diritti”. Quello che gli USA tutelano è il proprio interesse, per cui il mercato di una potenza emergente come l’Argentina risulta più interessante che non le possibilità connesse all’Europa, la quale rimane periferia, giardino di casa e base del sistema militare NATO.

E’ per questo che anche in Europa sarebbe necessario rendersi conto che l’analisi geopolitica dovrebbe prendere il posto della vuota retorica del diritto internazionale – ormai in crisi così come le varie organizzazioni internazionali – e rendersi conto che nessuna coalizione atlantica difende gl’interessi europei. Non esiste più la scusa della minaccia sovietica e Stati come Iran, Russia (per fare due esempi di Paesi criminalizzati gratuitamente e a noi vicini) rappresentano enormi possibilità di crescita politica ed economica per l’Europa, oggi bloccata da vuoti burocratismi e da argomenti retorici legati al passato.

*Matteo Pistilli è redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.

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Vertice di Chicago: la NATO completa il dominio del mondo arabo

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Rick Rozoff, 18 aprile 2012

Il 17 aprile, re Abdullah II di Giordania ha visitato la sede di Bruxelles della North Atlantic Treaty Organization, ultimo atto di obbedienza verso il blocco militare da parte di coloro che Zbigniew Brzezinski, nel 1998, definiva, senza mezzi termini ma con sufficiente precisione, i vassalli e i tributari docili dell’occidente in Medio Oriente, Nord Africa, Europa orientale, Caucaso meridionale, Asia Centrale, Sud Asia, Asia orientale e Pacifico meridionale.

Il pellegrinaggio del monarca giordano è stato preceduto da quelli dei presidenti di Germania, Georgia e Moldavia, del primo ministro del Montenegro, del ministro degli esteri della Croazia e del ministro della difesa della Slovenia, il mese scorso. Alti funzionari di diverse nazioni come Israele, Mongolia, Arabia Saudita, Bahrain, Australia, Nuova Zelanda, Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Giappone, Sud Corea, Iraq, Armenia e Azerbaigian, hanno visitato regolarmente il quartier generale della NATO.

Nonostante le affermazioni secondo cui l’alleanza incarna “libertà individuali, democrazia, diritti umani e dello Stato di diritto”, i cosiddetti valori euro-atlantici o transatlantici hanno sempre mostrato una propensione per le forme elitarie e esclusive di governo nazionale, in particolare per la monarchia. La maggioranza dei membri fondatori della NATO – Belgio, Gran Bretagna, Canada, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi e Norvegia – preferisce le forme pre-repubblicane, pre-moderne, anche se un po’ attenuate, delle monarchie costituzionali. Quindi non sorprende che il re Abdullah e i suoi compari governanti ereditari in Marocco e nel Consiglio di Cooperazione del Golfo, si sentano di casa a Bruxelles.

Nel resoconto nel sito web della NATO della sua visita, il “Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha lodato Sua Maestà Re Abdullah II di Giordania, per il prezioso partenariato per la sicurezza del suo paese, durante i colloqui presso la sede della NATO…” Rasmussen, fedele suddito della regina Margrethe II, è abituato ad inginocchiarsi davanti ai reali, e il coronato capo di Stato ha discusso del partenariato militare del Dialogo Mediterraneo della NATO, del programma di cooperazione bilaterale della Giordania con l’alleanza, del ruolo del Paese mediorientale nelle operazioni NATO nel mondo (la Giordania contribuisce con sue truppe alla guerra della NATO in Afghanistan) e del consolidamento delle sue partnership globali, che saranno deliberate in occasione del vertice del mese prossimo, a Chicago.

Nel comunicato stampa che descrive la visita, la NATO ha aggiunto, “la Giordania è un partner importante per la sicurezza, contribuendo alle missioni della NATO in Afghanistan, nei Balcani e, più recentemente, in Libia…” La Giordania era uno dei quattro paesi arabi presenti al vertice del 19 marzo a Parigi, con gli Stati Uniti e le principali potenze europee della NATO che annunciavano l’inizio dei sei mesi di campagna di bombardamenti contro la Libia. Gli altri tre erano Marocco, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Gli ultimi due sono membri dell’Iniziativa della Cooperazione di Istanbul della NATO, e congiuntamente hanno inviato 18 aerei da combattimento per l’attacco alla Libia, sia durante l’operazione Alba dell’Odissea dell’Africa Command degli Stati Uniti, che nella fase della guerra sotto l’operazione Unified Protector della NATO. A meno di due mesi dall’inizio del conflitto, è stato osservato che l’alleanza dei regni, emirati e sceiccati del Golfo Persico (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), il Consiglio di Cooperazione del Golfo, aveva invitato solo le altre monarchie nel mondo arabo, Giordania e Marocco, ad unirvisi, anche se nessuno dei due paesi si trova nei pressi del Golfo. E’ questo blocco di monarchie ad essere il principale partner dell’Occidente nell’attuare il cambio di regime nel mondo arabo, dalla Libia alla Siria allo Yemen, e in futuro in Algeria, Libia, Iraq ed altre nazioni, se necessario.

Le otto monarchie sono tutti partner militari della NATO: Giordania e Marocco attraverso il Dialogo Mediterraneo, e Bahrain, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti con l’Iniziativa della Cooperazione di Istanbul, con l’Oman e l’Arabia Saudita in pratica membri, anche se non ancora formalmente, di quest’ultima. La Libia era l’unico paese del Nord Africa a non essere un membro del Dialogo Mediterraneo.

Poco dopo l’assassinio di Muammar Gheddafi lo scorso ottobre, l’ambasciatore statunitense presso la NATO, Ivo Daalder, aveva offerto il sostegno del blocco per modellare un nuovo esercito libico e, secondo l’Agence France-Presse, ha detto che “la Libia potrebbe rafforzare i suoi legami con l’alleanza transatlantica unendosi al dialogo mediterraneo della NATO, una partnership che comprende Marocco, Egitto, Tunisia, Algeria, Mauritania, Giordania e Israele.”

In una riunione dei ministri degli esteri della NATO, a Bruxelles, il 7-8 dicembre, il Segretario Generale Rasmussen ha applaudito all’esito della prima guerra africana della NATO e “diversi funzionari e portavoce della NATO hanno espresso interesse a che la Libia entri nel Dialogo Mediterraneo”, ha riferito il Tripoli Post.

Per quanto riguarda le trasformazioni nel mondo arabo negli ultimi quindici mesi, in relazione alla NATO, il risultato netto è che l’alleanza militare dominata dagli USA è pronta a un nuovo ingresso, la Libia, con la Siria obiettivo del prossimo. Il Libano è un’altra prospettiva per il Dialogo Mediterraneo, dopo Libia e Siria, che se si verificasse, permetterebbe di convertire tutto il bacino del Mediterraneo in un lago della NATO. Allo stesso modo, se l’Occidente e i suoi alleati monarchici arabi potranno organizzare l’instaurazione di regimi conformi in Iraq e Yemen (forse con pretendenti di case reali per completare il modello), la NATO potrà acquisire altre due coorti anche dall’Iniziativa della Cooperazione di Istanbul. L’alleanza identifica l’Iraq come uno stato partner e la NATO Training Mission-Iraq è stata determinante nella costruzione ex-novo delle nuove forze armate della nazione, addestrando tutto il corpo degli ufficiali della polizia del petrolio.

Per quanto riguarda i restanti paesi arabi, almeno dal 2005 alti funzionari statunitensi e della NATO hanno promosso il dispiegamento delle forze NATO in Palestina, nel caso di, o come pre-condizione, per un accordo di pace con Israele. Nell’Agosto scorso, l’agenzia palestinese Ma’an aveva riferito che “il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto, durante una visita al Congresso degli Stati Uniti, che la sicurezza del futuro Stato palestinese sarà consegnata alla NATO, sotto il comando degli Stati Uniti…”

Dal 2005 al 2007, la NATO ha inviato diverse migliaia di truppe dell’Unione africana nella regione del Darfur, nel Sudan occidentale, e in una colonna del Washington Post del 2005, l’attuale ambasciatrice degli USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, aveva chiesto il dispiegamento di 12000-15000 truppe sotto il comando NATO, e due anni dopo aveva chiesto alla NATO di applicare una no-fly zone e di schierare la Forza di Reazione della NATO in Sudan. Due anni fa la NATO aveva trasportato in elicottero 2.500 soldati ugandesi e burundesi nella capitale somala Mogadiscio, per operazioni anti-insurrezionali. La NATO utilizza lo Stato autonomo somalo del Puntland come base per le operazioni nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso della sua missione navale Ocean Shield. Gibuti è effettivamente un avamposto della NATO nel Corno d’Africa, con 2.000 truppe statunitensi e la sede della forza combinata multi-operativa del Corno d’Africa del Pentagono, 3.000 truppe francesi e, negli ultimi dieci anni, diverse centinaia di truppe britanniche, olandesi, tedesche e spagnole, vi sono di stanza.

Lo scorso maggio è stato annunciato che gli Emirati Arabi Uniti, che forniscono un contingente militare alla NATO in Afghanistan, oltre ad aver fornito aerei da guerra per la campagna di Libia, sarebbe diventato il primo stato arabo ad aprire un’ambasciata presso la sede della NATO. Alla suddetta riunione ministeriale della NATO dello scorso dicembre, oltre a rivelare che “i funzionari della NATO hanno detto che pensano che la Libia sia suscettibile di chiedere l’adesione al Dialogo Mediterraneo”, Gulf News, degli Emirati Arabi Uniti, ha riferito, “I ministri degli esteri della Nord Atlantic Treaty Organisation (NATO) hanno deciso di rafforzare i propri contatti e la cooperazione con i paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente”. Il comunicato finale dell’incontro ha dichiarato: “significativi sviluppi politici hanno avuto luogo quest’anno in Nord Africa e del Medio Oriente. In questo contesto e in conformità con la nostra politica di partenariato, abbiamo convenuto di approfondire ulteriormente il dialogo politico e la cooperazione concreta con i membri del Dialogo Mediterraneo e l’Iniziativa della Cooperazione di Istanbul … Siamo pronti a prendere in considerazione, caso per caso, nuove richieste dai paesi di tali regioni, compresa la Libia, per il partenariato e la cooperazione con la NATO, tenendo conto del fatto che il Dialogo Mediterraneo e l’Iniziativa della Cooperazione di Istanbul sono quadri naturali per tali richieste.”

Al vertice del 2004 della NATO in Turchia, che ha creato l’omologa Iniziativa della Cooperazione di Istanbul per stringere alleanze militari con i vicini dell’Iran nel Golfo Persico, il blocco militare occidentale aveva anche aggiornato il Dialogo Mediterraneo, formatosi nel 1994, in un programma di piena collaborazione, vale a dire l’equivalente del Partenariato per la Pace utilizzato per preparare le dodici nazioni dell’Europa orientale all’adesione nella NATO nel 1999-2009. Due anni più tardi, il membro del Dialogo Mediterraneo Israele, è stata la prima nazione ad unirsi al programma di cooperazione bilaterale con la NATO, con l’Egitto che ha fatto seguito l’anno successivo, e la Giordania nel 2009. Il sito web della NATO attualmente elenca Mauritania, Marocco e Tunisia quali partner anche di quel programma.

Il 3 aprile la Segretaria di Stato Hillary Clinton ha pronunciato un discorso alla Conferenza del World Affairs Council 2012 della NATO a Norfolk, Virginia, dove si discuteva dei tre grandi temi da affrontare in occasione del vertice della NATO a Chicago, il 20-21 maggio. Oltre alla guerra in Afghanistan e all’impegno ad “aggiornare le capacità della NATO per la difesa del 21esimo secolo” – ha menzionato la sorveglianza aerea con i droni, la European Phased Adaptive Approach del sistema di intercettazione missilistica e il pattugliamento da parte degli aerei della NATO del Mar Baltico – ed ha sottolineato la necessità “di consolidare ed espandere le nostre partnership globali”. La natura di tali partnership nel mondo arabo è stata dimostrata la settimana prima del suo discorso, quando il Washington Post ha riferito della suo imminente visita in Arabia Saudita, con cui “la Segretaria di Stato Hillary Rodham Clinton … inaugurerà un dialogo strategico con le sei nazioni del Consiglio di Cooperazione del Golfo, da cui l’amministrazione si aspetta che alla fine porterà a un coordinamento con il sistema regionale di difesa missilistico creato dagli USA”, più tardi identificato come un prolungamento dell’US-NATO Phased Adaptive Approach.

La NATO e dei suoi alleati nel (ampliato) Consiglio di Cooperazione del Golfo, stanno invertendo 60 anni di indipendenza e di non-allineamento arabi, di pan-arabismo e di modelli repubblicani e socialisti dei paesi arabi in via di sviluppo, nel tentativo di subordinare i 350.000.000 di abitanti del mondo arabo alle loro agende regionali e globali.

FONTE:http://rickrozoff.wordpress.com/2012/04/18/chicago-summit-nato-to-complete-domination-of-arab-world/


Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Assange intervista per la televisione russa Sayyed Nasrallah

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Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, ha intervistato il segretario generale di Hezbollah Sayyed Hassan Nasrallah, nel primo di una serie di programmi in onda il martedì dal canale della televisione russa in inglese, RT.
Assange ha realizzato l’intervista dall’Inghilterra in video duplex con Nasrallah, che ha parlato “da una località segreta in Libano”, ha affermato il fondatore di Wikileaks.

Sul fronte politico, il segretario generale di Hezbollah, ha detto che la sua organizzazione “promuove la resistenza all’egemonia degli Stati Uniti o qualsiasi altro, e la resistenza all’occupazione o qualsiasi forma di aggressione contro il nostro popolo e le nostre famiglie. Ciò è coerente con i valori morali e umani, e anche con la legge divina e religiosa. Quest’ultima non può contraddire la ragione, perché entrambe procedono da colui che ha creato l’uomo.”
Ha continuato: “Finora, abbiamo evitato il conflitto con le parti all’interno del Paese perché la nostra priorità è quella di liberare la nostra terra e proteggere il Libano contro le minacce israeliane. Noi crediamo che il Libano è ancora nel circuito dell’intimidazione”.

“La liberazione del territorio è il nostro obiettivo reale e siamo pervenuti al governo nel 2005 per la prima volta, non per stare al potere, ma solo per proteggere la resistenza … ed evitare che l’esecutivo libanese intraprenda azioni esecutive contro essa resistenza e allontanare attriti a questo proposito”.

Per quanto riguarda la Siria, Sayyed Hassan Nasrallah, ha confermato che “è vero che ci sono alcuni Paesi, arabi e non, che offrono danaro, logistica e armi all’opposizione e sono coloro che stanno animando la lotta in Siria”.

“C’è un’opposizione che non è pronta per il dialogo, e neanche ad accettare le riforme. Tutto quello che chiede è rovesciare il regime siriano “, ha aggiunto Sayyed Hassan Nasrallah.

Inoltre ha affermato: “L’esperienza di trent’anni di Hezbollah dimostra che sono sempre stato un amico della Siria e non il suo agente. Al contrario, coloro che hanno beneficiato della presenza siriana in Libano ci stanno criticando.”

E ha sottolineato: “Il regime del regime di Bashar al Assad ha sostenuto la resistenza in Libano e Palestina”.
“Personalmente, ho trovato volontà da parte del presidente Bashar al-Assad di realizzare riforme radicali grandi e importanti”, ha detto Nasrallah.

Per quanto riguarda la linea di Hezbollah, Nasrallah ha aggiunto che “noi non interferiamo negli affari interni dei Paesi arabi. Questa è sempre stata la nostra politica. “

Infine, per quanto riguarda la questione palestinese, il segretario generale ha detto che la sola soluzione è “un unico stato nella terra di Palestina, che riunisce musulmani, ebrei e cristiani in pace”.
“L’entità sionista è un paese illegale ed è stata fondata sulla base dell’occupazione di un territorio appartenente ad altri”.

Al Manar

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Crescono i rapporti tra Italia e Bielorussia

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Lunedì 16 aprile si è svolto a Reggio Emilia nella sede dell’Unione Industriali e in collaborazione con il Console Onorario della Bielorussia dr. Antonio Sottile un interessante convegno dal titolo: “Focus Belaurs”, per illustrare alle aziende italiane le opportunità d’investimento in Bielorussia.

All’iniziativa, che ha registrato una folta presenza di imprenditori, avrebbe dovuto partecipare anche l’Ambasciatore della Repubblica di Bielorussia in Italia, S.E. Evgeny Shestakov, il quale dovendosi recare a Baku per un importante convegno sulla FAO ha comunque inviato un saluto ai presenti.

Di estrema importanza, quindi, l’intervento del Consigliere Commerciale dell’Ambasciata bielorussa, dr. Dmitri Mironcik, che ha sottolineato l’impetuosa ripresa dei rapporti economici tra il suo paese e l’Italia nel 2011, con una crescita del fatturato pari al 57,2% rispetto all’anno precedente.

Il 2012 si profila già come un anno record per il commercio bilaterale, in quanto nei primi tre mesi dell’anno il volume di affari tra Italia e Bielorussia è più che raddoppiato se raffrontato a quello del 2011, grazie anche al contributo di SACE che erogherà circa 50 milioni di euro per favorire gli scambi.

Mironcik ha perciò illustrato alcune significative statistiche: in Bielorussia operavano nel 2011 5.200 imprese a capitale straniero, favorite da una tassazione che si attesta a circa il 27%; se oggi la Bielorussia si trova nel mondo al 61° posto della classifica dei paesi nei quali è preferibile investire, il suo obbiettivo è entrare tra i primi 30 entro il 2015 (fonti della Banca Mondiale).

Grazie alle agevolazioni fiscali e alle zone franche presenti nel paese, gli imprenditori hanno la possibilità (specie nei piccoli centri) di fare investimenti a condizioni estremamente agevolate.
A questo proposito il dr. Sergio Russo, Consulente dell’Ambasciata italiana a Mosca, ha rimarcato come con la nascita dell’Unione Eurasiatica gli scambi tra Russia, Bielorussia e Kazakhstan siano già oggi esenti da dazi.

Anche i prodotti che per entrare in Bielorussia necessitano di un documento di registrazione statale, come ad esempio il vino, una volta ottenuto lo standard di certificazione possono essere esportati in tutte e tre le nazioni senza alcuna scadenza dei termini.

Il Presidente della Zona franca di Brest, dr. Vladimir Nedvakh, ha invece evidenziato le favorevoli condizioni imprenditoriali offerte dalla propria regione, a partire dalla posizione geografica e dalla rete d’infrastrutture che permettono il collegamento con i corridoi di trasporto della CSI e dell’Unione Europea.

A queste bisogna aggiungere le agevolazioni di carattere fiscale e tributario, la presenza in loco di un personale altamente qualificato, lo sgravio della burocrazia e il grande aeroporto internazionale.

Dopo la Germania, l’Italia è il principale partner per la modernizzazione dell’economia bielorussa e quasi tutte le tecnologie per la produzione di burro e di latte in polvere (prodotti dei quali Minsk è uno dei massimi esportatori mondiali) vengono dal nostro paese.

Il dr. Valery Labun, Presidente della Camera di Commercio di Brest, ha aggiunto come nel settore agricolo, nel quale la Belarus vanta punte d’eccellenza, sia comunque forte la presenza di capitali privati e in alcuni casi stranieri, vista la possibilità di investire negli immensi terreni per la realizzazione di centri di logistica e di trasporto.

La Camera di Commercio di Brest assiste e fornisce consulenza a tutti gli imprenditori italiani interessati ad esportare macchinari, generi alimentari, energia elettrica, prodotti di cosmesi e a sviluppare progetti per l’innovazione tecnologica.

L’Avvocato Armando Ambrosio ha quindi effettuato una valutazione del sistema giuridico bielorusso, premettendo come secondo le statistiche della Banca Mondiale la Bielorussia si trovi al 44° posto nel mondo per la facilità di rilascio dei permessi (molto prima degli altri paesi della CSI) e al 14° per la possibilità di far valere i propri diritti in tribunale.

Anche se il Codice degli investimenti è attualmente in fase di riforma, è importante ricordarsi di mettere per iscritto tutte le clausole contrattuali e le eventuali modifiche.

Visti i buoni rapporti tra i due paesi è in vigore la Convenzione tra Italia e Bielorussia per la protezione degli investimenti, inoltre vi è la possibilità di ricorrere all’arbitrato di uno Stato terzo per ricevere un indennizzo in caso di esproprio o nazionalizzazione della proprietà.

In Bielorussia vi è un alto livello di protezione della proprietà intellettuale ma in caso di dissidio è sempre meglio ricorrere all’Arbitrato, in quanto sia Roma che Minsk sono membri e della Convenzione di New York per il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere.

 
*Di Stefano Vernole, redattore di “Eurasia” – Rivista di Studi Geopolitici

 
 
 

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“La lotta per l’Africa”, resoconto, foto e video

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Resoconto della conferenza: “La lotta per l’Africa. Il neocolonialismo occidentale in Africa, l’ingerenza di Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. La nuova politica africana della Repubblica Popolare Cinese“.

 

Alla presenza di un folto pubblico che ha riempito la sala dell’Hotel Farnese quasi in ogni ordine di posti, si è svolto venerdì 20 aprile il Seminario di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici” dal titolo: “La lotta per l’Africa. Il neocolonialismo occidentale in Africa, l’ingerenza di Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. La nuova politica africana della Repubblica Popolare Cinese“.

L’incontro è stato introdotto e moderato dal prof. Claudio Mutti, direttore di “Eurasia”, che ha premesso come gli USA vogliano usufruire entro il 2015 del 25% del petrolio presente in Africa e a questo proposito tentino di disturbare la proficua politica di cooperazione della Cina con numerosi paesi africani.

In questa strategia, tutelata dall’installazione del comando militare statunitense nel Continente africano, l’AFRICOM, rientrano l’addestramento statunitense e francese dei ribelli del Mali, la destabilizzazione della regione dell’Azawad (per ammissione dello stesso Nicolas Sarkozy) e il progetto di installare in Niger una missione di sicurezza con la scusa della lotta al terrorismo e al crimine organizzato. In uno studio tradotto dallo stesso Mutti (Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, 2008), il geopolitico francese François Thual già dieci anni fa aveva previsto che dalla rivolta dei Tuareg sarebbero nate nuove entità statali nei territori del Mali e del Niger.

Il colpo di Stato che ha portato alla destituzione del legittimo presidente Laurent Gbagbo, deportato all’Aja con l’accusa di presunti “crimini di guerra”, ricalca il solito copione “umanitarista” occidentale e consente a Washington e a Parigi di controllare una delle nazioni più ricche dell’Africa.

Molto appassionato l’intervento del giurista ivoriano dr. Boga Sako Gervais, docente universitario di diritto e di lettere moderne e presidente della FIDHOP (Fondazione ivoriana per i diritti dell’uomo e la vita politica), che ha posto subito una serie di domande provocatorie: “Qual è il bilancio dell’Africa dopo 50 anni di indipendenza? E’ reale la sua indipendenza? Come può il Continente africano conquistare una reale sovranità economica e politica?

Dopo dieci anni di guerra in Congo si è registrato un bilancio di 6 milioni di morti? Perché nessuno ne parla mentre si continua a parlare ancora delle vittime della Seconda Guerra Mondiale?

Secondo il dr. Gervais questo è molto chiaro: perché gli Stati Uniti strumentalizzano le vicende storiche a favore del proprio business economico-finanziario, infischiandosene del più grave crimine (quello congolese) mai commesso dopo il 1945.

Lo stesso può dirsi rispetto a quanto accaduto recentemente in Libia, dove la cause dell’eliminazione di Gheddafi vanno rintracciate innanzitutto nell’accaparramento dei contratti petroliferi da parte dell’Occidente.

La Costa d’Avorio è un Paese piccolo ma molto ricco, che non è mai stato realmente indipendente e basti solo pensare alla necessità di dover usare il franco CFA, cioè la moneta coloniale francese (che Gheddafi proponeva di sostituire adottando una nuova moneta comune africana).

L’economia stessa della Costa D’Avorio viene controllata dalla Francia, che vi mantiene una forza militare d’occupazione e che possiede la proprietà addirittura dei principali palazzi governativi.
L’attuale Presidente Alassane Ouattara è stato insediato perché prono ai voleri del Fondo Monetario Internazionale e grazie al finanziamento occidentale dei “ribelli” ivoriani, esattamente come accaduto poi in Libia.

In realtà la Francia ha violato in Costa d’Avorio sia la democrazia che i diritti dell’uomo, favorendo l’uccisione di quasi 10.000 persone, nel silenzio complice della Nazioni Unite e della “Comunità internazionale” che erano al corrente dell’accordo Obama-Sarkozy.
Mentre la NATO bombardava Tripoli, con la scusa di “proteggere i civili”, l’aviazione di Parigi bombardava Abidjan e uccideva i civili ivoriani che si erano posti come scudi umani a difesa del Palazzo presidenziale.

Gli ivoriani sono però stanchi di vedersi depredare le ricchezze del paese e condurranno la loro battaglia per la verità fino in fondo.
Per questa ragione i veri Africani vogliono un esteso partenariato strategico con la Cina, che ha dimostrato di voler cooperare in maniera onesta ed equa con loro, per cercare di liberare l’intero continente africano dalla dominazione economica, geopolitica e militare imposta dall’Occidente.

L’Africa deve prendersi le proprie responsabilità e gestire autonomamente il proprio destino, rigettare la falsa e caritatevole cooperazione occidentale e battersi per una reale indipendenza: non tutti i suoi figli, infatti, accettano gli Ouattara di turno.

Jean Claude Sougnini, presidente del “Collettivo per il Rispetto della Costituzione e delle Istituzioni della Cote D’Ivoire-Italie” sezione del Piemonte, ha rilevato l’assurdità di arrivare ad una guerra per una semplice consultazione elettorale.

Ma in Costa d’Avorio Francia e Stati Uniti hanno sbagliato i loro calcoli, pur approfittando della complicità mediatica che dai tempi dell’olocausto generato dalla tratta degli schiavi ha sempre negato le sofferenze dei popoli africani.

E’ perciò indispensabile coordinarsi con tutte quelle realtà culturali e appartenenti alla società civile che vogliono ristabilire la verità sui fatti e intendono combattere contro gli usurpatori del potere, Sarkozy e Obama innanzitutto.

In Africa mancano purtroppo ancora i servizi sociali di base, quelli sanitari, scolastici … una realtà molto triste sulla quale bisogna fare piena luce attraverso un’opera di controinformazione.
Facendo solo un esempio, durante la crisi della Costa d’Avorio l’inviato italiano della RAI si trovava in Kenya … ecco questo è esattamente ciò che non deve essere accettato.

Tutti i Paesi africani colpiti da guerre e destabilizzazione hanno qualcosa in comune: il petrolio, il gas naturale, l’uranio (per questa ragione il Niger è vitale per la Francia), per cui si favorisce l’installazione al potere di una cricca che in combutta con l’Occidente si accaparra tutte le ricchezze e lascia morire di fame la maggior parte della popolazione.

L’Africa non vuole la carità occidentale ma un aiuto per liberarsi da questo sistema di sfruttamento neocoloniale che non è più accettabile, favorendo un sistema di scambio economico equo ed onesto.

Durante l’intervento di Sougnini è stato proiettato un crudo filmato che documenta le atrocità commesse in Costa d’Avorio negli ultimi mesi, mostrando tuttavia come i giovani siano ancora in strada a manifestare la propria rabbia contro l’Occidente e il Governo collaborazionista imposto dalle armi francesi e statunitensi.

Si tratta di una battaglia per l’affermazione di una vera democrazia, che non è certo quella occidentale, visto che sono proprio i “signori della guerra” a comandare oggi nel paese; una battaglia oltremodo difficile dopo la chiusura dell’Università di Abidjan, avvenuta nell’indifferenza complice dell’Unione Europea e delle altre istituzioni internazionali, che nelle fasi più acute della crisi ivoriana arrivano ad imporre addirittura un embargo sui medicinali …
Tutti gli ivoriani che non accettano il regime di Ouattara vengono perciò inseriti in una lista e corrono il rischio di essere uccisi o imprigionati a causa delle loro denunce.

Alcuni parlamentari europei non conoscono nemmeno la geografia dell’Africa eppure prendono decisioni influenti sulla Costa d’Avorio, contando sull’ignoranza di tanti esponenti politici presenti nelle istituzioni.

Ha perciò concluso il convegno il Prof. Giovanni Armillotta, direttore della rivista “Africana” e redattore di “Eurasia”, sottolineando come gli stretti legami economici tra la Cina e l’Africa costituiscano un’ottima opportunità di sviluppo per entrambe.

Il Forum sino-africano di Pechino tenutosi nel novembre 2006 con la partecipazione di 48 Paesi africani rimane la più grande conferenza interstatale mai organizzata dalla Cina, pur ignorata dai mass media occidentali controllati dagli Stati Uniti evidentemente infastiditi dal suo successo.

Siccome il sistema cinese con l’Africa è vincente senza bisogno di ricorrere a guerre e colpi di Stato, rimane da capire per quale ragione l’Europa non faccia altrettanto ma continui ad insistere con una politica che alterna conflitti e inutile misericordia, pretendendo addirittura di dare lezioni di moralità a Pechino.

La Cina deve puntare ad un partenariato strategico con l’Africa nel rispetto dei reciproci interessi e favorendo un decollo delle relazioni grazie alla cooperazione impostata su basi paritarie.

Le tre principali compagnie petrolifere cinesi hanno da tempo vinto gran parte della competizione con quelle occidentali, al punto che il continente africano fornisce a Pechino circa il 25% del proprio fabbisogno energetico, con punte del 60% del petrolio proveniente dal Sudan (dati 2011).

La secessione del Sudan meridionale, funzionale agli interessi di Stati Uniti ed Israele, costituisce proprio un tentativo di danneggiare la politica estera seria e indipendente della Cina in quell’area.

Il Drago è molto attivo anche nelle missioni di pace delle Nazioni Unite in Africa e la presenza delle sue truppe, spesso ufficiali ad alto addestramento, gli consente di familiarizzare con la cultura e la popolazione locale, di gestire da vicino i propri investimenti economici e di creare le condizioni per un vantaggio reciproco.
Nonostante il fallimento storico dell’Unione Africana, il prof.

Armillotta ricorda però come durante la “gestione” Gheddafi questa sia riuscita a far rispettare due principi fondamentali: l’intangibilità dei confini ereditati dal colonialismo; il diritto all’indipendenza nazionale contro l’ingerenza occidentale.
Questa è una delle tante ragioni dell’aggressione militare condotta dalla NATO contro la Libia nel 2011.

*Di Stefano Vernole, redattore di “Eurasia” – Rivista di Studi Geopolitici

 
 
 

● Qui di seguito riportiamo alcune foto e i link alle registrazioni audiovideo disponibili sul nostro canale youtube.


 

 

 

 
 
 

 

 

 


 
 
 

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“Sull’orlo del baratro”, Alain De Benoist a Sassuolo (MO) – 21 aprile 2012

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In una Sala Biasin strapiena, con oltre 100 persone presenti, il filosofo e saggista francese Alain De Benoist ha presentato in Italia il suo ultimo libro: Sull’orlo del baratro, dedicato alla grande crisi economico-finanziaria oggi più virulenta che mai.

Dopo la facile ed amara previsione enunciata nel dicembre 2009 durante il seminario di “Eurasia” tenutosi a Modena in occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino, per cui la crisi del capitalismo era di natura strutturale e non congiunturale, si è tentato nell’incontro sassolese di definire alcuni concetti attorno ai quali tentare di ripartire.

Sono sei, in particolare, i punti cardine che emergono nell’ultimo libro di De Benoist: 1) Le definizioni di “limite” (collegato a quello della finitezza delle risorse disponibili) e di “bene comune” (equa distribuzione delle ricchezze) per affrontare la crisi; 2) Il mondo multipolare, attraverso la creazione di grandi aree sovranazionali legate da vincoli federali; 3) Il completo dominio dei mercati finanziari sull’economia e sulla politica impone il ritorno della sovranità degli Stati (aggregati in grandi spazi geopolitici;) 4) La sostituzione del dollaro come moneta di riferimento internazionale proposta dalla Cina, che insieme agli altri paesi del BRICS vuole creare una nuova banca mondiale per guidare lo sviluppo; la trasformazione dell’euro in moneta di riserva europea; 5) I costi sociali dell’immigrazione e la sua funzionalità al capitalismo, per cui non si possono combattere i guasti dell’una senza affrontare la questione economica; 6) La riforma dello Stato sociale attraverso la creazione di un reddito di cittadinanza.

Ma il pezzo forte del libro di Alain De Benoist, come ricordato dal dr. Michele Franceschelli di “Eureka” nell’introduzione, lo troviamo nella postfazione, dove viene designato il “nemico principale”: a) Il mercato sul piano economico; b) Il liberalismo sul piano politico; c) L’individualismo sul piano filosofico; d) La borghesia sul piano sociale; e) Gli Stati Uniti sul piano geopolitico.

Nella sua lunga relazione il filosofo francese ha rimarcato come la crisi provenga proprio dagli Stati Uniti (il cui debito è il 240% del PIL) e sia stata all’inizio decisamente sottovalutata.

Le cause profonde dell’indebitamento, funzionale solo alla speculazione, vanno ricercate nell’azione sconsiderata delle banche private che hanno poi costretto i poteri pubblici a soccorrerle (800 miliardi di dollari spesi solo negli USA).

La deregolamentazione dei mercati finanziari (che hanno un assoluto controllo sulla politica) è stata provocata dall’abolizione delle tariffe doganali e delle barriere comunitarie.

La conseguenza è stata la moltiplicazione delle delocalizzazioni, la fuga di capitali, l’aumento della disoccupazione e della sperequazione sociale.

In tutti i Paesi europei, per affrontare la crisi, si sta seguendo lo stesso schema: piani di austerità, aumento delle imposte, tagli allo Stato sociale per salvare la finanza mondiale dal suo crollo; due sono allora le vie d’uscita da questa situazione insostenibile sul lungo periodo: una rivolta generalizzata o l’inesigibilità del debito.

In Grecia, dove il debito è il 160% del PIL, in cambio degli aiuti sono state richieste nuove privatizzazioni e un’ulteriore compressione dei salari, al punto che il potere d’acquisto dei lavoratori è calato del 40%.

In realtà non si fa che rinviare le scadenze del fallimento, perché non si vogliono eliminare le cause strutturali che hanno determinato la crisi: alla Grecia non resta che l’uscita dall’euro o un impoverimento generalizzato della propria popolazione.

L’attuale crisi geopolitica globale, invece, dopo le recenti tensioni in Libia, in Siria ed in Iran, rischia di condurre ad una nuova guerra mondiale, data l’indisponibilità degli Stati Uniti a rinunciare alla propria leadership mondiale, così come richiesto dalle nuove potenze emergenti Cina, Russia, Brasile, India e Sudafrica, che si battono per il multipolarismo.

 
 
*Di Stefano Vernole, redattore di “Eurasia” – Rivista di Studi Geopolitici
 
 

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Puskhov a Roma spiega le direttrici strategiche del terzo mandato di Putin

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Martedì 17 aprile, presso la sala di Palazzo Santacroce a Roma, sede del Centro Russo di Scienza e Cultura di Roma, è andata in archivio la conferenza dal titolo “Il ritorno del presidente Putin: le prospettive della politica estera“. I lavori sono stati introdotti dal presidente dell’ISPI, Giancarlo Aragona, seguito dal presidente della commissione Affari Esteri della Duma di Stato e presidente della delegazione russa presso l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, Aleksej Pushkov. Sono intervenuti anche Luisa Todini, presidente della sezione italiana del Foro di Dialogo Italo-Russo, e Franco Venturini del Corriere della Sera.
Riportiamo di seguito l’intervento del diplomatico russo:
 
 

“Putin ha una visione chiara e ben conosciuta della politica estera della Federazione Russa e anche quando Medvedev era presidente si continuava a seguire la politica tracciata da Putin. Da un punto di vista strategico i primi anni del XXI secolo vedono affacciarsi la Russia come un centro di potere indipendente. In passato molto volte è stato chiesto alla Russia di entrare o aderire all’Unione Europea e alla NATO ma questo si è visto che non è possibile. La NATO, in quanto alleanza strategica politico-militare tra UE e NATO è un’alleanza diseguale. Innanzitutto, anche a causa della crisi economica, gli Stati Uniti coprono le spese della NATO in enorme misure rispetto agli alleati europei. Oltre a questo la NATO è una organizzazione dove formalmente sono tutti uguali ma gli USA sono “più uguali degli altri” e dettano le regole del gioco. In terzo luogo la Russia è contro il concetto di “interventi umanitari” e contro il loro utilizzo in giro per il mondo. In Iraq, come abbiamo visto, non si è trattato di un intervento umanitario, anche perché le pretese armi di distruzione di massa si sono rivelate un falso pretesto per coprire altri scopi. Quella in Iraq è una guerra di invasione con scopi geopolitici frutto della strategia attuata durante la presidenza Bush ed in cui le prime vittime sono state i civili iracheni. Anche in Libia si è trattata di una guerra di aggressione e l’uccisione di Gheddafi non è assolutamente legittima in quanto viola il diritto internazionale oltre a non essere in nessun modo prevista dalla risoluzione votata da Russia e Cina e anzi in aperta violazione della stessa. La risoluzione 1973 dell’ONU è stata quindi un inganno per coprire gli interessi geopolitici e militari degli USA e della NATO. Per quanto riguarda la situazione in Siria, la Russia ha già posto il veto due volte nel consiglio di sicurezza dell’ONU per evitare il ripetersi di una nuova Libia. La situazione venutasi a creare con la guerra civile in Siria è sotto ogni punto di vista insostenibile e gravissima, ma quelli come il francese Bernard-Henri Lévy che sostengono l’intervento armato occidentale sono degli incoscienti e mentono o non conoscono la realtà della Siria. La Siria è un Paese complesso dove convivono molte etnie e religioni, gli Alauiti, il gruppo che detiene il potere politico e militare sono il 13% della popolazione, mentre i cristiani sono il 10%. Chi va in Siria e chiede ai cristiani cosa pensano di Assad scopre che la maggior parte dei cristiani sono contro la deposizione di Assad perché sanno che in caso di caduta del regime loro sarebbero i primi ad essere trucidati. Il cosiddetto “esercito di liberazione siriano” è in gran parte composto da estremisti islamici e gente che viene dall’esterno. L’opposizione siriana, che esiste, non chiede l’intervento armato ma il dialogo con Assad. Se volete chiedere a qualcuno chi sono le forze che cercano di rovesciare il presidente Assad, non è certo un mistero, basta chiederlo a Hillary Clinton che insieme ad altri Stati occidentali e non arma e finanzia le bande armate dell’opposizione. Anche in Libia, del resto, dopo la caduta di Gheddafi non si è instaurata nessuna democrazia né c’è libertà, ma c’è un regime tribale-confessionale oppressivo ed ancora in molte zone impazza la guerra civile. LA ragione per cui Assad è ancora al potere è perché Damasco, la popolazione, non vuole la guerra civile, se Assad perde il potere sarà il caos. A Damasco ci sono 5 milioni di abitanti, non c’è oppressione, le donne sono libere, poche portano il velo, la società è praticamente laica e moderna. Non c’è bisogno di spiegare il tipo di società in vigore in quei Paesi “interventisti” come il Quatar e L’Arabia Saudita che annunciano di voler portare la democrazia in Siria con le bombe, un simile proclama suona alquanto strano. Le moschee in Siria sono molto presenti e frequentate ma non esiste un islam radicale ed estremista, però gli islamisti sono pronti e scalpitano per trasformarle in scuole coraniche dove si insegna l’estremismo e si fabbricano terroristi. E’ un fatto accertato che Al Qaida sta spostando le sue azioni in Siria, addirittura nel centro di Damasco, spedendo i suoi militanti dai Paesi limitrofi come Giordania e Iraq.
Da un parte, certamente, c’è la repressione del regime che provoca vittime ma dall’altra parte abbiamo gruppi armati pronti a scatenare massacri di civili. Questi “amici della Siria” che hanno la loro centrale operativa a Istanbul e sono coordinati dalla NATO e dalle monarchie arabe che vogliono il rovesciamento di Assad, non fanno il bene della Siria. La vera opposizione siriana infatti non vuole il rovesciamento del regime perché sa bene che si creerebbe il caos e la Siria si trasformerebbe in un nuovo Iraq. La soluzione giusta della crisi consiste nel radunare le forze dell’opposizione e proseguire nella mediazione per andare alle elezioni in un clima di sicurezza. La missione di Kofi Annan è stata possibile proprio grazie al veto russo e cinese che hanno bloccato l’intervento armato. In questo contesto in cui la Russia si schiera contro la guerra le prospettive di collaborazione con l’Occidente sono buone. La Russia lavora per realizzare una soluzione condivisa da tutti, la Russia non vuole chiudere la porta al dialogo con l’Europa e gli USA, la Russia ha bisogno dell’Occidente per modernizzarsi e servono gli investimenti.
Gli USA hanno bisogno della Russia per risolvere le crisi in Corea e in Iran e quasi tutte le crisi regionali hanno bisogno di passare per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per trovare una soluzione. Inoltre l’apporto della Russia è necessario per risolvere la situazione in Afghanistan ed agevolare la ritirata dei soldati delle forze occidentali. Oggi l’Occidente non ha più solo la Russia come interlocutore isolato ma essa fa ora parte di due organizzazioni importanti come l’Unione Eurasiatica e i BRICS, che sono due attori emergenti importanti con cui bisogna avere a che fare”

 
 

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La bizzarra strategia di Washington sul Kosovo potrebbe distruggere la NATO. Giocare con la dinamite e la guerra nucleare nei Balcani

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William Engdahl, 13 Aprile 2012
 
In uno degli annunci più bizzarri della politica estera della bizzarra amministrazione Obama, la segretaria di Stato degli USA Hillary Clinton, ha annunciato che Washington ‘aiuterà’ il Kosovo ad aderire alla NATO e all’Unione europea. Ha fatto la promessa dopo un recente incontro a Washington con il Primo Ministro del Kosovo Hashim Thaci, dove ha elogiato i progressi del suo governo nel progredire verso “l’integrazione e lo sviluppo economico europeo”. [1]

Il suo annuncio ha senza dubbio causato seri maldipancia tra i funzionari governativi e militari delle varie capitali europee della NATO. Pochi comprendono la pazzia del piano della Clinton nel spingere il Kosovo nella NATO e nell’UE.

 
Kosovo base geopolitica
 

La controversa proprietà oggi chiamata Kosovo, era parte della Jugoslavia ed era legata alla Serbia fino a quando la campagna dei bombardamenti NATO nel 1999, ha demolito quel che restava della Serbia di Milosevic, aprendo la strada agli Stati Uniti, con la dubbia assistenza delle nazioni dell’UE, soprattutto della Germania, nel spartire l’ex Jugoslavia in minuscoli pseudo-stati dipendenti. Il Kosovo ne è uno, così come la Macedonia. Slovenia e Croazia già in precedenza si erano separate dalla Jugoslavia, con il forte aiuto del ministero degli esteri tedesco.

Alcune brevi rassegne sulle circostanze che hanno portato alla secessione del Kosovo dalla Jugoslavia, aiutano a capire quanto sarà rischiosa la sua adesione alla NATO o all’Unione europea per il futuro dell’Europa. Hashim Thaci, l’attuale Primo Ministro del Kosovo, ha ottenuto il suo posto, per così dire, attraverso il Dipartimento di Stato degli USA, e non tramite libere elezioni democratiche nel Kosovo. Il Kosovo non è riconosciuto come Stato legittimo dalla Russia, dalla Serbia e da oltre un centinaio di altre nazioni. Tuttavia, è stato immediatamente riconosciuto quando ha dichiarato l’indipendenza nel 2008, dall’amministrazione Bush e da Berlino.

L’adesione all’Unione europea del Kosovo, sarebbe il benvenuto a un altro Stato fallito, cosa che non può disturbare la Segretaria Clinton, ma di cui l’Unione europea, in questo momento sicuramente, può fare a meno. Le migliori stime sulla disoccupazione nel paese, la danno a circa il 60%. Non è che il terzo a livello mondiale. L’economia era sempre la più povera della Jugoslavia, ed oggi è peggio. Ma il vero problema, per il futuro della pace e della sicurezza, è la natura dello stato del Kosovo, che è stato creato da Washington alla fine degli anni ’90.

 
Stato mafioso e Camp Bondsteel
 

Il Kosovo è una piccola parcella di terra in una delle posizioni più strategiche di tutta Europa, dal punto di vista geopolitico l’obiettivo militare degli Stati Uniti è controllare i flussi del petrolio e gli sviluppi politici del Medio Oriente, a danno di Russia ed Europa occidentale. L’attuale riconoscimento degli USA dell’auto-dichiarata Repubblica del Kosovo, è una continuazione della politica statunitense nei Balcani, fin dall’illegale bombardamento della NATO e degli USA della Serbia, nel 1999, dallo schieramento fuori area della NATO, approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, presumibilmente sulla premessa che l’esercito di Milosevic sarebbe stato sul punto di effettuare un genocidio degli albanesi del Kosovo.
Alcuni mesi prima dei bombardamenti statunitensi degli obiettivi serbi, uno dei più pesanti bombardamenti dalla Seconda Guerra Mondiale, un alto funzionario dell’intelligence statunitense aveva parlato, in conversazioni private con alti ufficiali dell’esercito croato, a Zagabria, della strategia di Washington per l’ex Jugoslavia. Secondo questi rapporti, comunicati privatamente all’autore, l’obiettivo del Pentagono già alla fine del 1998 era prendere il controllo del Kosovo, al fine di garantirsi una base militare per controllare l’intera regione del sud-est europeo, fino alle terre petrolifere del Medio Oriente.

Dal giugno 1999, quando la Kosovo Force (KFOR) della NATO occupò il Kosovo, quindi una parte integrante dell’allora Jugoslavia, il Kosovo era tecnicamente nel quadro di un mandato delle Nazioni Unite, secondo la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Russia e Cina avevano inoltre convenuto su tale mandato, che specificava il ruolo della KFOR nel garantire la fine dei combattimenti inter-etnici e le atrocità tra la minoranza serba, le altre e la maggioranza albanese islamica del Kosovo. Sotto il 1244 il Kosovo sarebbe rimasto parte della Serbia, in attesa di una risoluzione pacifica del suo status. Questa risoluzione delle Nazioni Unite è stata palesemente ignorata dagli Stati Uniti, dalla Germania e da altri elementi dell’Unione europea, nel 2008.

Il riconoscimento tempestivo del Kosovo da parte della Germania e di Washington, e l’indipendenza nel febbraio 2008, significativamente avvennero il giorno dopo le elezioni del presidente della Serbia, che confermarono il filo-Washington Boris Tadic, che aveva avuto un secondo mandato di quattro anni. Con Tadic assicurato, Washington poteva contare su una reazione serba compatibile al suo sostegno al Kosovo.

Subito dopo il bombardamento della Serbia, nel 1999, il Pentagono aveva sequestrato 1000 acri di terra a Uresevic, in Kosovo, vicino al confine con la Macedonia, e aggiudicò un contratto alla Halliburton, quando Dick Cheney ne era l’amministratore delegato, per costruire una delle più grandi basi militari degli USA all’estero, Camp Bondsteel, oggi con più di 7000 soldati.

Il Pentagono si era già assicurato sette nuove basi militari in Bulgaria e Romania, sul Mar Nero e nei Balcani settentrionali, comprese le basi aeree di Graf Ignatievo e Bezmer in Bulgaria, e la base aerea di Mihail Kogalniceanu in Romania, utilizzate per “ridurre” le operazioni militari in Afghanistan e in Iraq. L’installazione rumena ospita la Joint Task Force East del Pentagono. Il colossale Camp Bondsteel degli Stati Uniti, in Kosovo, e l’utilizzo e il potenziamento dei porti croati e montenegrini dell’Adriatico, per le implementazioni della Marina degli Stati Uniti, completano la militarizzazione dei Balcani. [2]

L’agenda strategica degli Stati Uniti per il Kosovo è in primo luogo militare, secondariamente, a quanto pare, riguarda il traffico di stupefacenti. Il suo obiettivo principale è opporsi alla Russia e il controllo dei flussi di petrolio dal Mar Caspio e dal Medio Oriente all’Europa occidentale. Dichiarandone l’indipendenza, Washington ottiene uno stato debole che può controllare completamente. Finché fosse rimasto parte della Serbia, il controllo militare della NATO sarebbe stato politicamente insicuro. Oggi il Kosovo è controllato come una satrapia militare della NATO, la cui KFOR vi ha posto 16.000 soldati, per una popolazione di soli 2 milioni di abitanti. Camp Bondsteel fa parte di una serie di cosiddette basi operative avanzate o “ninfee” (elistazioni NdT), come li chiamava Donald Rumsfeld, per l’azione militare a est e a sud. Ora, portando formalmente il Kosovo nell’UE e nella NATO, rafforzerà la base militare, dopo che la Repubblica di Georgia dominata dal protetto degli USA Saakashvili, aveva così miseramente fallito, nel 2008, nel ricoprire quel ruolo per conto della NATO.

 
Heroin Transport Corridor
 

Il controllo militare USA-NATO del Kosovo serve a diversi scopi dell’agenda geo-strategica di Washington. In primo luogo, consente un maggiore controllo degli Stati Uniti sul petrolio e sulle potenziali rotte degli oleodotti e dei gasdotti dal Mar Caspio e dal Medio Oriente all’UE, nonché il controllo dei corridoi di trasporto che collegano l’Unione europea al Mar Nero. Inoltre, protegge il traffico di eroina multi-miliardario che, significativamente, è cresciuto fino a registrare dei record in Afghanistan dall’inizio dell’occupazione statunitense, secondo funzionari dei narcotici delle Nazioni Unite.

Kosovo e Albania sono le principali rotte di transito dell’eroina verso l’Europa. Secondo un rapporto annuale del 2008 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti sul traffico internazionale di stupefacenti, alcune importanti rotte del traffico di droga passano attraverso i Balcani. Il Kosovo viene indicato come un punto chiave per il passaggio di eroina dalla Turchia e dall’Afghanistan all’Europa occidentale. Questo flusso di droga passa sotto l’occhio vigile del governo Thaci.

Dall’epoca dei suoi rapporti con la tribù Meo, in Laos, durante l’epoca del Vietnam, la CIA ha protetto il traffico di stupefacenti in luoghi chiave, per finanziare in parte le sue operazioni segrete. La dimensione del traffico internazionale di sostanze stupefacenti, oggi, è tale che le principali banche statunitensi come Citigroup, ricaverebbero una quota significativa dei loro profitti dal riciclaggio del traffico.

Una delle caratteristiche più notevoli della corsa indecente di Washington e degli altri Stati a riconoscere immediatamente l’indipendenza del Kosovo, è il fatto che ben sapevano che il suo governo e i suoi due principali partiti politici, sono in realtà gestiti dalla criminalità organizzata albanese del Kosovo. Hashim Thaci, Primo Ministro del Kosovo e capo del Partito Democratico del Kosovo, è l’ex leader dell’organizzazione terroristica che gli Stati Uniti e la NATO addestrarono e chiamarono Esercito di liberazione del Kosovo, KLA, o in albanese UCK. Negli ambienti della criminalità del Kosovo, è conosciuto come Hashim ‘il Serpente’ per la sua spietatezza personale verso gli avversari.

Nel 1997, l’Inviato Speciale per i Balcani del presidente Clinton, Robert Gelbard, descrisse l’UCK, come indubbiamente un gruppo terrorista. Era molto di più. E’ una mafia clanistica, impossibile quindi infiltrarvisi, che controlla l’economia sommersa del Kosovo. Oggi il Partito Democratico di Thaci, secondo fonti delle polizie europee, mantiene i suoi legami con il crimine organizzato.
Un rapporto del BND tedesco del 22 febbraio 2005, etichettato Top Secret, che da allora è trapelato, dichiarava: “Tramite elementi chiave, per esempio Thaci, Haliti, Haradina, vi è uno stretto legame tra politica, l’economia e la criminalità organizzata internazionale nel Kosovo. Le organizzazioni criminali favoriscono l’instabilità politica e non hanno alcun interesse nella costruzione di uno stato ordinato e funzionante, che potrebbe nuocere ai loro affari crescenti.” [3]

L’UCK ha iniziato le azioni nel 1996 con il bombardamento dei campi profughi serbi che ospitavano i rifugiati dalle guerre in Bosnia e Croazia. L’UCK aveva ripetutamente fatto appello alla ‘liberazione’ di aree di Montenegro, Macedonia e della Grecia settentrionale. Thaci non è certo una figura della stabilità regionale, per dirla morbidamente.

Il 44enne Thaci era un protetto personale della Segretaria di Stato di Clinton Madeleine Albright, durante gli anni ’90, quando era solo un gangster 30enne. L’UCK è stato sostenuto fin dall’inizio dalla CIA e dal BND tedesco. Durante la guerra del 1999, l’UCK è stata sostenuta direttamente dalla NATO. Nel momento in cui venne assunto dagli Stati Uniti, nella metà degli anni ’90, Thaci aveva fondato il ‘Gruppo di Drenica’, un sindacato criminale del Kosovo con legami con le mafie albanese, macedone e italiana. Un rapporto classificato del gennaio 2007, preparato per la Commissione UE, intitolato ‘VS-Nur fur den Dienstgebrauch’, venne fatto trapelare ai media. Contiene in dettaglio l’attività criminale organizzata del KLA e del suo successore, il Partito democratico di Thaci.

Nel dicembre 2010, la relazione del Consiglio d’Europa venne pubblicata, il giorno dopo che la commissione elettorale del Kosovo aveva detto che il partito dell’onorevole Thaci aveva vinto le prime elezioni post-indipendenza, e accusava le potenze occidentali di complicità nell’ignorare le attività criminali della cerchia guidata da Thaci: “Thaci e questi altri membri ‘del Gruppo di Drenica’ sono costantemente indicati come ‘attori chiave’ nei rapporti di intelligence sulle strutture della criminalità organizzata della mafia del Kosovo”, dice il rapporto. “Abbiamo scoperto che il ‘Gruppo di Drenica’ ha avuto come capo o, per usare la terminologia delle reti della criminalità organizzata, un suo ‘boss’ nel rinomato politico … Hashim Thaci”. [4]

La relazione afferma che Thaci esercitava un “controllo violento” sul traffico di eroina. Dick Marty, l’investigatore dell’Unione europea, ha presentato il rapporto ai diplomatici di tutti gli Stati membri dell’UE. La risposta è stata il silenzio. Washington è dietro Thaci. [5]

La stessa relazione del Consiglio d’Europa sulla criminalità organizzata del Kosovo accusava l’organizzazione mafiosa di Thaci di trattare il commercio di organi umani. Figuri della cerchia intima di Thaci, sono stati accusati di aver tenuto dei prigionieri oltre il confine con l’Albania, dopo la guerra, dove si dice che un certo numero di serbi sono stati uccisi affinché i loro reni fossero venduti sul mercato nero. In un caso, rivelato nei procedimenti giudiziari in un tribunale distrettuale di Pristina del 2008, si diceva che gli organi erano stati presi dalle povere vittime in una clinica conosciuta come Medicus, “collegata all’espianto di organi da parte del Kosovo Liberation Army (KLA), nel 2000”. [6]

La questione diventa allora, perché Washington, la NATO, l’UE e annessi e, soprattutto, il governo tedesco, sono così desiderosi di legittimare il distacco del Kosovo? Un Kosovo gestito internamente dalle reti della criminalità organizzata, è facile da controllare per la NATO. Essendo sicuro che uno Stato debole è molto più facile da sottomettere al dominio della NATO. In combinazione con l’Afghanistan controllato dalla NATO, da cui arriva l’eroina, con il Kosovo controllato dal Primo Ministro Thaci, il Pentagono sta costruendo una rete di accerchiamento attorno alla Russia, che è tutto tranne che pacifica.

La dipendenza di Thaci dalle buone grazie degli Stati Uniti e della NATO, assicura che il governo di Thaci farà ciò che gli viene chiesto. Questo, a sua volta, assicura agli Stati Uniti un vantaggio importante, consolidando la propria presenza militare permanente nel strategicamente vitale sud-est Europa. Si tratta di un passo importante nel consolidamento del controllo NATO sull’Eurasia, e fornisce agli Stati Uniti un notevole margine di oscillazione nell’equilibrio di potere europeo. Meraviglia poco che Mosca non abbia accolto con favore la vicenda, così come numerosi altri Stati. Gli Stati Uniti stanno letteralmente giocando con la dinamite, e potenzialmente anche con la guerra nucleare nei Balcani.

 
F. William Engdahl, è autore di A Century of War: Anglo-American Oil Politics in the New World Order. Collabora con BFP e può essere contattato attraverso il suo sito web www.engdahl.oilgeopolitics.net, dove questo articolo è stato originariamente pubblicato.
 

FONTE: http://www.boilingfrogspost.com/2012/04/13/washingtons-bizarre-kosovo-strategy-could-destroy-nato/#more-13795

NOTE:

[1] RIA Novosti, US to Help Kosovo Join EU NATO: Clinton, 5 aprile 2012, http://en.rian.ru/world/20120405/172621125.html.

[2] Rick Rozoff, Pentagon and NATO Complete Their Conquest of The Balkans, Global Research, 28 novembre 2009, www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=16311.

[3] Tom Burghardt, The End of the Affair: The BND, CIA and Kosovo’s Deep State, http://wikileaks.org/wiki/The_End_of_the_Affair% 3F_The_BND% 2C_CIA_and_Kosovo% 27s_Deep_State .

[4] The Telegraph, Kosovo’s prime minister ‘key player in mafia-like gang ,’ 14 dicembre 2010.

[5] Ibid.

[6] Paul Lewis, Kosovo PM is head of human organ and arms ring Council of Europe reports , The Guardian, 14 dicembre 2010.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Convegno accademico sull’oggetto misterioso

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Venerdì 20 aprile si è tenuto il convegno “Europa e democrazia: il caso ungherese”, organizzato dalle cattedre di Diritto costituzionale e di Diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma.

Purtroppo, nonostante la partecipazione di due costituzionalisti comparatisti, il convegno non ha approfondito per nulla il tema della Legge Fondamentale dell’Ungheria emanata il 25 aprile 2011, ma si è limitato a riproporre le argomentazioni polemiche abbondantemente divulgate dalla grancassa giornalistica. Lo stesso testo costituzionale, oggetto teorico delle relazioni accademiche, non è stato accostato dai convenuti, per loro stessa ammissione, se non attraverso una traduzione inglese di incerta origine, tant’è vero che il documento in questione è stato citato come “the new Constitution of Hungary”! (Eppure una traduzione italiana del Preambolo apparve nel 2001 su “Eurasia” ed una traduzione integrale della Carta è disponibile dall’aprile di quest’anno nella sezione Documenti del sito di “Eurasia”).

Più che un’iniziativa di carattere scientifico, dunque, il convegno di Parma è sembrato un processo animato da pregiudizi ideologici.

Ciò è apparso chiaro fin dall’introduzione del prof. Antonio D’Aloia, che con tono allarmato ha ripetutamente definito “inquietante” il nuovo testo costituzionale, mentre un altro relatore, il prof. Roberto Toniatti, ha elencato per esteso i motivi d’inquietudine che turbano le coscienze autenticamente democratiche.

“Inquietante”, a quanto pare, è il fatto che la carta costituzionale si apre col verso iniziale dell’Inno di Ferenc Kölcsey (1790-1838): “Dio, benedici l’Ungherese!” (Isten, áldd meg a Magyart), la poesia che, musicata da Ferenc Erkel, è diventata inno nazionale. E’ inquietante la citazione dell’inno nazionale? O, più probabilmente, è il richiamo a Dio che risulta inquietante per una coscienza laica e democratica? Se è così, allora si dovrebbe rivedere e correggere anche l’inno nazionale italiano, il quale, evocando una Vittoria poeticamente personificata, dice che “schiava di Roma – Iddio la creò”. E perché la coscienza laica del prof. Toniatti non è inquietata da formule ufficiali e istituzionali come “God bless America!” e “In God we trust”? Forse perché sono americane e non ungheresi?

Altrettanto “inquietante” è la dichiarazione costituzionale secondo cui lo Stato ungherese si impegna a “custodire l’unità spirituale e morale della nostra Nazione, andata in pezzi nelle tempeste del secolo scorso”, perché su questo punto si fonda l’estensione della cittadinanza ungherese, con relativo diritto di voto, ai connazionali che sono cittadini dei paesi confinanti. Come mai non risulta inquietante, per fare un solo esempio, il fatto che la cittadinanza dello “Stato d’Israele” sia legalmente accessibile a tutti gli ebrei del mondo, i quali possono essere simultaneamente cittadini tanto dello Stato in cui risiedono quanto dell’entità sionista?

“Inquietante” è pure il fatto che la nuova Costituzione riconosce l’esistenza di nazionalità facenti parte della comunità politica ungherese. Infatti il testo costituzionale, tradotto in italiano (anziché in inglese), recita così: “Le nazionalità che vivono con noi sono parti della comunità politica ungherese e fattori costitutivi dello Stato”. In effetti il pregiudizio individualistico, che sostituisce la comunità organica con la “società degli individui” e riduce il cittadino a “uomo senza qualità”, né nazionale né religiosa né altro, rende incomprensibile una concezione come questa, nella quale si coglie il ricordo dell’esperienza storica vissuta dagli Ungheresi nell’edificio multinazionale della duplice Monarchia.

Particolarmente “inquietante”, soprattutto per un giurista che si occupa dei “diritti LGBTI (Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex) nel XXI secolo” è la definizione del matrimonio come “comunione di vita (életközösség) tra uomo e donna”. Ma una persona normale si inquieterebbe al pensiero che il matrimonio possa esser definito diversamente.

Nella seconda parte del testo costituzionale, che concerne diritti e doveri dei cittadini, ha suscitato analoga inquietudine l’articolo II, il quale afferma che la vita umana è protetta fin dal momento in cui viene concepita. A chi sostiene che tale articolo viola i valori europei, bisognerebbe obiettare che esso, al contrario, è perfettamente conforme al principio del diritto romano secondo cui “infans conceptus pro nato habetur” (il bambino concepito è considerato come nato).

O forse ciò che più d’ogni altra cosa inquieta gli alfieri dei “diritti umani” è proprio il punto che è stato sottaciuto dai giuristi, ossia quello che rinvia all’attività del legislatore l’attuazione di una disposizione concernente la Banca Centrale Nazionale, ispirando una serie di riforme costituzionali che mirano a porre l’attività creditizia al servizio della comunità, e non degli speculatori?

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Perspectivas geopolíticas de la política venezolana

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Sin dudas Hugo Rafael Chávez Frías, actual presidente de la República Bolivariana de Venezuela, es un personaje central en la dinámica de las relaciones internacionales de la región. En este artículo nos proponemos usar algunos elementos teóricos que fueran desarrollados por el filósofo economista Max Weber (1864-1920), que consideramos útiles para comprender más nítidamente el peso del liderazgo del presidente. Los límites del presente trabajo lógicamente no permitirán un análisis exhaustivo del liderazgo chavista; sin embargo los elementos que aportemos nos ubicarán mucho mejor al momento de comprender la realidad interna venezolana y su proyección al ámbito exterior.

En la primera sección intentaremos describir el proceso de construcción de su liderazgo carismático -a lo largo del tiempo- mencionando aspectos teóricos descriptos por Weber. Teniendo en mente la fuerza política que significa su persona, analizaremos en la segunda sección la situación interna de cara a las elecciones presidenciales de octubre; para finalmente pensar la política internacional de Chávez. Aquí nos serviremos del aporte que Roberto Russell y Juan G. Tokatlian[1] hicieran sobre los modelos de política exterior de América Latina.

 

I-La construcción del líder

Corría el año 1992, la sociedad venezolana organizada en torno al petróleo, estaba-y aún lo sigue estando-profundamente polarizada. El oro negro venía a ser el gran muro que separaba a sectores de elite -beneficiados por los recursos fiscales que la actividad generaba- de amplias mayorías signadas por la injusticia social.

El 4 de febrero Hugo Chávez irrumpe en la escena política al encabezar un frustrado Golpe de Estado al presidente Carlos Andrés Pérez. El por entonces Comandante del Batallón de Paracaidistas es consiente de la derrota y asume la responsabilidad del movimiento militar sublevado, pero desde ese momento ya no habría vuelta atrás: la construcción de poder iniciaba.

Desde prisión su figura irá adquiriendo los rasgos propios de un liderazgo carismático. Durante su estadía en la cárcel suscribe un manifiesto titulado ‘Como salir del laberinto’ donde plantea soluciones a la inmensa crisis que golpea duramente a los sectores más débiles de la población venezolana[2]. Desde allí dirige al Pueblo mensajes, convoca a la abstención en las elecciones presidenciales de 1993 mientras no deja de ganar cada vez mayor apoyo y mitificarse como héroe popular.

Max Weber define al carisma del líder como: “(…) la cualidad, que pasa por extraordinaria (…)” y aclara: “El modo como habría de valorarse “objetivamente” la cualidad en cuestión (…) es cosa del todo indiferente en lo que atañe a nuestro concepto, pues lo que importa es cómo se valora “por los dominados” carismáticos, por los “adeptos”[3].  Por lo cual, parafraseando a Weber, el modo como habría de valorarse objetivamente el carisma de Chávez es indiferente, pues lo que importa es cómo es valorado por sus adeptos. En este sentido es inobjetable que una mayoría de la sociedad, cansada de la marginación a la que era sometida por la aplicación de medidas económicas de corte neoliberal, vio en la figura de Chávez una alternativa al desigual sistema político tradicional y por ello le brindó su apoyo.

Las elecciones presidenciales de diciembre de 1998 le permitieron a Chávez dar un paso más en la consolidación del liderazgo; dice Weber al respecto: “En el caso de que no sea puramente efímera sino que tome el carácter de una relación duradera (…) la dominación carismática (…) tiene que variar esencialmente su carácter: se racionaliza (legaliza) o tradicionaliza… (…)[4]”. Así, triunfando con el 56, 5% de los votos, su figura se legitimaba y se “rutinizaba” al establecerse como el gobierno legal-racional del Estado venezolano.

La llegada a la presidencia vino a verificar aquella consideración que expresa: “El carisma es la gran fuerza revolucionaria en las épocas vinculadas a la tradición[5]”. Su ascenso al poder significó una variación de la conciencia y de la acción de un Pueblo que por tradición se encontraba marginado. Chávez, revolucionando las estructuras, lo colocó como principal sujeto político. La Constitución Nacional fue modificada, se puso fin al bipartidismo, el vínculo con el Pueblo estaba consolidado, la misión del líder se encarnaba en la llamada revolución bolivariana[6].

 

II-Dimensión interna

Chávez en el poder significó la continuidad de una elevada conflictividad social. Pese a los cambios introducidos, persistieron ciertas características de la “Democracia Puntofijista[7]” persistieron-burocratismo, corrupción, ineficiencia institucional.

Las elecciones parlamentarias de 2010 expresaron el desgaste en la base social de la revolución: el oficialismo perdió la mayoría calificada-de dos tercios- en la Asamblea Nacional.  La cuestión adquiere relevancia si pensamos en las elecciones presidenciales de octubre de 2012. Chávez ganaría pero no holgadamente, lo cual dejaría con bases muy débiles un proyecto político que necesita de bases fuertes para llevar adelante reformas revolucionarias que apuntan a lograr el socialismo del siglo XXI.

La enfermedad de Chávez suma una dificultad extra. Los líderes carismáticos raramente son fáciles de sustituir, por lo cual la vida del presidente está estrechamente asociada a la vida del proyecto. Roger Noriega-ex secretario de Estados Unidos ante la OEA- se pronunció al respecto acusando la existencia de un plan militar de emergencia que aseguraría la supervivencia del régimen en caso de desaparición física del líder[8].

Hasta 2010 la oposición había sido dura solo en términos de violencia (responsable del fallido golpe de Estado de 2002 y del paro patronal petrolero del mismo año) pero no tenía peso popular. Ahora, asesorada externamente, dio un giro estratégico mostrándose ante el mundo como la resistencia al “régimen totalitario”. Aun así el oficialismo sigue seguro sobre la capacidad desestabilizadora de sus oponentes; al respecto Hugo Chávez advirtió el pasado 11 de abril de 2012 sobre una nueva conspiración en su contra, ante lo cual ordenó la creación de un Comando Especial “Antigolpe”.

 

III-Relaciones internacionales

Los años ’90 fueron la década de un casi total alineamiento latinoamericano hacia Washington; fue precisamente Hugo Chávez-hacia finales de siglo-el primero en abandonar aquella estrategia.  De acuerdo a la tipología de Russell y Tokatlian, Venezuela se embarcaría-sobre todo  después de 2002- en un modelo de política exterior denominado desafío.

Chávez identificó  a EEUU como un enemigo, por lo cual se encaminó en políticas de distanciamiento para contrabalancear su poder tanto en el terreno regional como mundial.

A nivel regional-siempre siguiendo el modelo teórico propuesto- el uso de significativos recursos simbólicos y materiales sirvieron para propagar el proyecto revolucionario. La amplia capacidad discursiva y  la utilización de términos repletos de carga histórica, le sirvieron a Chávez para obtener un notable consenso social en el subcontinente. La IV Cumbre de las Américas en el año 2005 sepultó definitivamente el proyecto de un área de libre comercio continental (ALCA) al sumar la negativa de Argentina y Brasil -lo cual significó una importante derrota para el “imperialismo” estadounidense.

La comunión ideológica que Chávez encuentra con Evo Morales (Bolivia), Rafael Correa (Ecuador) y en general con la mayoría de presidentes latinoamericanos, hace que la zona sea aún hoy un terreno fértil para sembrar ideas de la revolución bolivariana.

A nivel extra regional se evidencia con mayor claridad el revisionismo chavista. Las redes de alianzas que Caracas privilegia atacan directamente los intereses de los EEUU: basta pensar sus vínculos con Irán. Es interesante notar como estas relaciones parecieran ser enmarcadas por criterios propios de la guerra fría: Pekín y Moscú se convierten de este modo –aunque sea en lo simbólico- en aliados (simbólicamente) vitales.

En el ámbito internacional la revolución encuentra un camino más estrecho. Grandes actores estatales acompañados por el establishment económico y financiero trasnacional no ven con buenos ojos al presidente del Palacio Miraflores. Y en este sentido, las elecciones de octubre son clave: si Chávez obtiene una victoria ajustada, sus “enemigos” externos no dudarán en emprender una ofensiva final, que obviamente será aprovechada por el “enemigo” interno.

 

Reflexiones

La revolución chavista tiene tres frentes de batalla: el primero tendrá su momento culminante el 7 de octubre en las elecciones presidenciales. Chávez tiene posibilidades de ganar; pero lo trascendente es un triunfo con amplio margen de votos, para relegitimarse y consecuentemente afirmar con fuerza el proyecto. Allí sería el momento de transferir parte del poder al Pueblo para mermar los altos niveles de paternalismo. En caso contrario la revolución sería un gigante con pies de barro; sus opositores tendrían la oportunidad de dar el ataque final.

El segundo es el frente regional, potencialmente fértil para las ideas bolivarianas.

El ámbito extra regional es el último frente de la batalla ideológica; adverso por el momento, dado que el orden internacional aún sigue siendo influenciado por “enemigos”. No solo Venezuela encuentra dificultades, sino que incluso aliados (simbólicos) como China y Rusia ven limitados sus márgenes de acción. Debido a esto, es probable si los resultados de las elecciones de octubre no son del todo positivos para la revolución, que el primer y tercer frente formen un único bloque de oposición y se empeñen en una campaña final contra Chávez; intentando incluso sumar-tal vez en vano-  al frente regional.

 


NOTE:

[1] Roberto Russell es profesor de Relaciones Internacionales de la Universidad Di Tella (Argentina) y Juan G. Tokatlian es profesor de Relaciones Internacionales de la Universidad de San Andrés (Argentina).


[2] Comunicación popular para la construcción del socialismo del siglo XXI. “Chávez en la cárcel”. Disponible en internet: http://www.aporrea.org/tiburon/a93835.html


[3] Weber, Max. “Economía y Sociedad”.


[4] Ídem.


[5] Ídem.


[6] Término acuñado por Chávez para designar el cambio político económico y social comenzado desde su acceso al gobierno, basado en el ideario de Simón Bolívar, Simón Rodríguez y Ezequiel Zamora. Consultar: http://www.revolucionbolivariana.org.mx


[7] Sistema político que se instauró tras el Pacto de Punto Fijo de octubre de 1958 entre los tres partidos políticos venezolanos para asegurar la estabilidad de la restaurada democracia. Este sistema no era visto por el chavismo como una auténtica democracia.


[8] Diario La Nación. “Revelan un plan militar en el caso de que muera Chávez”. Disponible en Internet: http://www.lanacion.com.ar/1464830-revelan-un-plan-militar-en-el-caso-de-que-muera-chavez


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El sueño prohibido boliviano

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Bolivia es actualmente un país sin costas marítimas, un Estado mediterráneo en el continente americano. Es desde fines del siglo XIX que padece esta situación de ahogo, al estar rodeado por los territorios de Argentina, Brasil, Chile, Paraguay y Perú. Específicamente, fue la llamada guerra del “Salitre”-que tuvo lugar entre 1879 y 1883- el hecho responsable de la pérdida de salida al mar.

Por aquellos años, el desierto de Atacama se había vuelto muy importante desde el punto de vista económico. Se habían realizado grandes descubrimientos de guano y salitre- importantes recursos destinados a la fertilización de campos agrícolas- ambos con  altos precios en el mercado internacional, lo cual inauguró una rivalidad profunda entre Chile, Perú y Bolivia. Los tres países veían en el desierto una gran fuente de ingresos en un contexto de gran presión financiera como lo fue durante la década de 1870.

Los intereses de los capitales ingleses también desembarcaron en la región, y muchos historiadores concuerdan en asignarles gran importancia al momento de analizar las causas que llevaron a la guerra.

En 1879 Chile declaró la guerra a Bolivia, dando inicio a la guerra del Salitre o “Segunda guerra del pacífico” y poco tiempo después se vio obligado a declarar la guerra también a Perú: Chile alegaba en aquel momento, el descubrimiento de un tratado secreto defensivo entre ambos Estados que era amenazante a sus intereses nacionales.

Con la firma del Tratado de Paz de 1904, Bolivia perdía su litoral que pasaba a manos de Chile y éste último se comprometía a construir un ferrocarril entre las ciudades de Arica (Chile) y La Paz (Bolivia) y reconocer a perpetuidad el derecho de tránsito comercial boliviano por el territorio y puertos chilenos.

 

Idas y vueltas

 

Desde la circular de abril de 1910 en que el canciller de Bolivia Daniel Sánchez de Bustamante hiciera llegar a los representantes diplomáticos de Perú y Chile, el gobierno de El Quemado[1] ha mantenido su deseo de lograr una salida al mar. A partir de aquel momento, muchos han sido los encuentros y desencuentros que no han permitido llegar a buen puerto. En 1963, la demanda por acceso al mar llevó a la ruptura de relaciones diplomáticas, restauradas en 1975 con el Acuerdo de Charaña (también conocido como Acta o Abrazo de Charaña) realizado entre los dictadores Hugo Banzer Suárez y Augusto Pinochet. En esa oportunidad se diseñó una propuesta que buscaba  solucionar el problema de mediterraneidad de boliviana: Chile cedería una franja de terreno a lo largo de su frontera septentrional con Perú para permitir el acceso de La Paz al océano Pacífico. Lamentablemente no pasaría mucho tiempo para que los acuerdos firmados se disolvieran y las relaciones entre ambos países se quebrarían otra vez en 1978-situación que se prolonga hasta la actualidad, sólo existen relaciones a nivel consular[2].

 

La estrategia

 

De acuerdo a Eduardo Paz Rada[3] a pesar de no tener relaciones diplomáticas oficiales a través de Embajadores, los gobiernos de Bolivia con Evo Morales y Chile con Michelle Bachelet primero y ahora con Sebastián Piñera, han alcanzado inéditos niveles de diálogo y acercamiento, a pesar de los profundos y controvertidos problemas históricos y geopolíticos que atraviesan los dos países desde hace mas de un siglo; sin embargo, los visos de solución a la mayor controversia entre los dos países son prácticamente nulos.

La actual estrategia boliviana apunta a multilateralizar la cuestión; en este sentido marcha su intensión de acudir tribunales internacionales para buscar una solución, como lo manifestó en la 41° Asamblea General de la Organización de los Estados Americanos (OEA) del año 2011. Esta maniobra se completa con la búsqueda de diálogo y negociación en el marco de dicha organización.

En las antípodas de la táctica de Evo Morales, tenemos la postura de Santiago, contraria a la sesión de soberanía de territorios chilenos a Bolivia y a favor de considerar al conflicto como una cuestión estrictamente bilateral. No obstante, Chile estaría dispuesto a concederle acceso a la costa a través de su territorio pero con ciertas restricciones sobre la soberanía[4].

 

El rol de Perú

 

Lima juega un papel muy importante en la cuestión: la pretensión boliviana implicaría un espacio soberano en la costa marítima entre su territorio y el territorio de Chile, ante lo cual no es de poca importancia la postura que tome el gobierno peruano. Perú podría significar un obstáculo insalvable para las aspiraciones del gobierno de La Paz.

La primera dificultad significativa se encuentra en el Tratado de Bogotá suscripto en 1929 entre Chile y Perú por el cual se definen los límites de ambos países y donde Chile se compromete a no ceder territorios que fueron peruanos a terceras potencias. De este modo, el tratado viene a conferirle a Perú una especie de veto ante una eventual transferencia de soberanía chilena a Bolivia de territorios que fueron peruanos.

Una segunda dificultad está dada porque la propia delimitación marítima con Chile sigue aún sin determinar de acuerdo a la tesis peruana. Lima demandó a Chile ante la Corte Internacional de Justicia en el año 2008, reclamando la soberanía de una zona marítima de aproximadamente 37.900 km² en el océano Pacífico.

Un último inconveniente se hace presente debido a que las localidades de Tacna (Perú) y Arica (Chile)-zona donde La Paz tiene puesta su mira- forman una misma unidad económica de desarrollo e integración que podría ser desmembrada por el anhelo de un corredor boliviano[5].

Pese a estas reticencias, en octubre de 2010 Bolivia y Perú pusieron fin a años de roces políticos, al ratificar un pacto firmado en 1992 conocido como “Boliviamar” que permitirá al país altiplánico tener acceso al Pacífico para sus exportaciones al establecer una zona franca[6].


Una posible demanda por Mar

 

El constitucionalista e investigador en temas marítimos Víctor Hugo Chávez fue el artífice que logró el viraje en la táctica que impulsa la administración de Evo Morales para lograr un acceso soberano al mar recurriendo a tribunales y organismos internacionales.

En virtud de la demanda de límites marítimos que Perú instauró contra Chile en 2008 ante la Corte Internacional de La Haya, la Cancillería boliviana solicitó el año pasado información a dicha institución, con el objetivo de dar a conocer sus consideraciones e intereses en torno a dicho diferendo. El eventual fallo de la Corte podría definir nuevos límites marítimos por lo cual el país se podría ver directamente afectado en sus posibilidades de acceder a un espacio con vía libre para la navegación.

Es importante mencionar que el llamado Proyecto “Chavez”-desarrollado por el arriba citado constitucionalista- que plantea demandar a Chile ante el Tribunal de La Haya para recuperar la salida al mar; encuentra un obstáculo no menor en la cláusula novena de las Disposiciones transitorias de la Constitución Política del Estado de 2009. Dicha cláusula indica que el Gobierno tiene hasta el 6 de diciembre de 2013, para demandar o renegociar tratados internacionales que sean contrarios a la Carta Magna; es decir que para La Paz esa fecha sería el límite para denunciar el Tratado de 1904. Por lo cual sería necesario antes de recurrir al Tribunal, negociar el tratado con Chile.

 

Configuraciones de fuerzas

 

A mediados de este año, Cochabamba será sede de la 42º reunión de la OEA. Allí Bolivia tendrá la oportunidad de plantear una vez más su demanda contra Chile. El Gobierno del altiplano se viene preparando en este sentido: prepara un informe “contundente” sobre la demanda marítima y un lobby para conseguir en la Asamblea respaldo a su posición.

Es natural que esta situación preocupe al gobierno de La Moneda. De repetirse lo ocurrido en 1979 en la 9º Asamblea de la OEA, el país quedaría contra la pared. En aquella oportunidad todos sus miembros-excepto Chile obviamente- consideraron que la demanda marítima era un tema de “interés hemisférico”, que requería una “solución equitativa” y respaldaron “un acceso soberano y útil” al mar para Bolivia.

Si sumamos el actual entendimiento ideológico que acerca mucho más a La Paz con los pesos pesados de la región, Santiago se vería en una situación de mayor aislamiento al que tuvo en aquella oportunidad; sensación no menor al contar con una historia llena de conflicto y tensiones con sus vecinos inmediatos, que aún persiste en la memoria colectiva y en la opinión pública de los pueblos.

 

Reflexiones

 

Bolivia y Chile serán por siempre vecinos naturales, ante esto, encontrar una solución satisfactoria es obviamente antes beneficiosa que costosa. Pero para poder alcanzar este acuerdo, ambos países necesitan dejar atrás los viejos modos de percibirse mutuamente, más propios del siglo XIX que de nuestro siglo, y comprenderse no como enemigos, sino como partes de un todo mayor que los necesita unidos.

Además, si ambas naciones se ven como protagonistas plenos de la región latinoamericana y toman conciencia de compartir intereses, cuentan con más posibilidades de solucionar el conflicto. En esta línea se dirige la estrategia que busca aprovechar la necesidad de Brasil de acceder al océano Pacífico como una herramienta para resolver la disputa. Este gigante necesita acceder a dicho océano por una ruta más corta que pase por Bolivia, paralelamente esta estrategia también satisface el interés de Chile por acceder al Océano Atlántico y da cuenta de la comunidad de intereses regionales.

Inevitablemente el conflicto no puede considerarse como un tema bilateral; en este sentido se expresa Loreto Correa[7] al señalar que “en rigor, si Chile firmase un nuevo tratado de límites con Bolivia, prácticamente se obligaría a firmar uno nuevo con Perú”, lo que volvería nuevamente complejo el tema, ya que las negociaciones y, por ende, la bilateralidad, se transformaría en un tema tripartito.

La solución que se tome debe ser pragmática, pero contemplando las aspiraciones de los pueblos en el largo plazo; y en esto es esencial que los gobiernos cuenten con buena voluntad.

 


NOTE:

[1] Nombre con el que es conocida la sede del Gobierno boliviano.


[2] Panorámica Social. “La forzada mediterraneidad de Bolivia”. Disponible en Internet: http://panoramicasocial.com/relaciones-internacionales/12-america/237-la-forzada-mediterraneidad-de-bolivia


[3] Sociólogo, académico de la Universidad Mayor de San Andrés, Bolivia.


[4] Ídem Panorámica Social.


[5] Ídem Panorámica Social.


[6] América economía. “Perú y Bolivia plantean una nueva relación con un pacto marítimo”. Disponible en Internet: http://www.americaeconomia.com/politica-sociedad/politica/peru-y-bolivia-plantean-una-nueva-relacion-con-un-pacto-maritimo


[7] Investigadora especializada en las relaciones chileno-bolivianas del Instituto de Estudios Avanzados de la Universidad de Santiago.

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Dal “Mare Nostrum” al “Gallinarium Americanum”. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente

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Dal numero 3/2005, Il Mediterraneo, Alberto B. Mariantoni
 
 
La sconfitta militare delle potenze dell’Asse nella Seconda guerra mondiale non ha solamente determinato il crollo del regime fascista italiano e di quello nazionalsocialista tedesco. Quell’evento ha piuttosto spianato la strada a due particolari e drammatici “effetti collaterali”:

 

    1. da un lato, infatti, ha permesso un decisivo sviluppo della principale Superpotenza militare del mondo, che oggi non fa più mistero delle sue mire egemoniche di dominio unipolare: gli Stati Uniti d’America[1];

 

    2. dall’altro, ha direttamente o indirettamente provocato l’inevitabile fine della libertà, dell’indipendenza e dell’autodeterminazione, nonché della sovranità politica, economica, culturale e militare della totalità delle Nazioni mediterranee (e non solo).

 

Il dato fondamentale che va posto all’attenzione di tutti coloro che individuano nel ripristino delle suddette istanze l’obiettivo principale di un decisivo impegno politico-culturale, è che ancora oggi – nonostante l’ultimo Conflitto mondiale sia ufficialmente terminato sessant’anni fa, e, a sua volta, la Guerra fredda si sia conclusa sin dal 1990 – le originarie strutture militari[2] che, dopo l’8 Maggio 1945, gli Stati Uniti d’America avevano deciso di mantenere o di stabilire in Europa ed all’interno di alcuni paesi del bacino mediterraneo e dell’area vicino-orientale, continuano imperterrite (dopo essersi quasi triplicate nel numero, avere largamente ampliato la loro sfera d’influenza all’interno ed all’esterno dei nostri territori e notevolmente incrementato – nel tempo – la loro iniziale potenzialità logistica ed operativa) ad occupare e a dominare (o quantomeno, a minacciare militarmente da vicino e ricattare politicamente) l’insieme della nostra area geopolitica.

 

Come tutti sanno, appunto, tra il 1945 ed il 1990, gli Stati Uniti – con la scusa della “lotta contro il comunismo” e della difesa ad oltranza del cosiddetto “mondo libero” (che – se erano in buona fede – potevano, invece che da Sigonella, benissimo difendere dall’Alaska, ex territorio russo, che si trovava e si trova praticamente ad un “tiro di schioppo” dall’allora frontiera territoriale dell’Unione Sovietica!) – si sono semplicemente mantenuti, con la complicità e la connivenza (o semplicemente, grazie all’incapacità o all’inconsistenza?) dei nostri governanti, sulle posizioni militari che avevano acquisito durante la Seconda guerra mondiale. E dopo avere terminato di insediare le loro basi “difensive” all’interno dei nostri territori, le hanno principalmente utilizzate per controllare, assoggettare e/o ricattare militarmente, politicamente ed economicamente la totalità dei paesi del nostro specifico scacchiere.

 

Tra il 1990 ed il 2000, inoltre, nonostante non esistesse più il “pericolo comunista” e l’Urss ed i regimi filo-sovietici dell’Europa orientale fossero già crollati, gli Stati Uniti – con il pretesto della Guerra del Golfo (1990-1991)[3], dell’intervento internazionale in Somalia (1993-94) e dei diversi “Conflitti balcanici” (1992-2000) – sono riusciti, dapprima, a rendere psicologicamente indispensabili l’insieme delle loro basi agli occhi dell’opinione pubblica dei nostri paesi e, in un secondo tempo – con la successiva creazione ad hoc di nuovi e pericolosi focolai di guerra e di destabilizzazione politica e militare all’interno dei nostri territori[4] – a farle addirittura considerare essenziali alla sicurezza militare ed alla stabilità politica delle nostre Nazioni (e dunque, insopprimibili), dall’insieme dei nostri rispettivi governi.

 

Infine, tra il 2001 ed i nostri giorni – sfruttando l’ondata di sentita emozione che aveva fatto seguito agli (auto?) attentati dell’11 Settembre 2001[5] e coinvolgendo (con la scusa delle famose “armi di distruzione di massa” di Saddam… che nessuno, fino ad ora, è mai riuscito a scovare!) alcuni paesi europei nella loro invasione/occupazione dell’Iraq (2003)[6] – gli Stati Uniti, non solo hanno imposto una vera e propria proliferazione della loro presenza militare[7] all’interno del nostro continente (installazione di numerose basi statunitensi nell’Est europeo e all’interno della maggior parte delle ex Repubbliche musulmane sovietiche), ma – dopo essersi auto-proclamati campioni indiscussi della “Guerra infinita” (sic) al “terrorismo internazionale”; avere pretestuosamente invaso l’Afghanistan; avere largamente ed opportunisticamente accreditato, in Occidente, la falsa e pretestuosa idea di un impellente ed inevitabile “scontro di civiltà” con le popolazioni musulmane della sponda Sud del Mediterraneo e del resto del Vicino Oriente; avere seminato, a piene mani, instabilità e sovvertimento[8] all’interno del nostro spazio geopolitico – hanno ugualmente incominciato a pretendere, dall’insieme dei nostri governi, il completo e non negoziabile allineamento ideologico, politico e militare sulla discutibile ed avventuristica politica d’espansione militare (per fini economici interni…)[9] che la loro Amministrazione ha recentemente (e per l’ennesima volta) deciso di adottare e/o di mettere in pratica[10].

 

Ora, per rendersi conto del reale significato delle “Liberazioni” che gli Stati Uniti ci avrebbero dispensato, nonché per toccare con mano la triste ed umiliante condizione di “polli in batteria”[11] che i responsabili pro-tempore della Casa Bianca hanno avuto la lungimiranza e “magnanimità” di riservare ai nostri Popoli ed alle nostre Nazioni, basta dare una rapida occhiata alle pagine che seguono, nelle quali sono elencate le Basi militari statunitensi[12] che costellano attualmente il Continente europeo, il Bacino mediterraneo e l’Area vicino orientale.
 
 
Basi USA in Europa [13] (da Nord a Sud). Tra le più importanti:
 
 

  • ISLANDA: NAS Keflavik (Reykjanes – US-Navy – US-Air Force).

 

  • ESTONIA, LATVIA, LITHUANIA : attualmente sono in costruzione almeno 22 Basi militari e 6 Basi navali NATO[14], su controllo statunitense (Mare Baltico – US-Air Force; US-Navy; US-Army; NSA[15]).

 

  • NORVEGIA: Sola Sea Air Base (US-Air Force); Stavanger Air Base (US-Air Force); Flesland Air Base (Bergen – US-Air Force).

 

  • GRAN BRETAGNA: (all’incirca 30 basi –  US-Air-Force, US-Navy, US-Army) – nome della base: Lakenheath (località: Lakenheath; provincia o regione: Suffolk – US-Air Force); Mildenhall (Mildenhall, Suffolk – US-Air Force); Alcombury (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Molesworth (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Thrapston (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Upwood (Ramsey, Cambridgeshire – US-Air Force); Fairford (Fairford, Gloucestershire – US-Air Force); Feltwell (Thetford, Norfolk – US-Air Force); Croughton (Croughton, Northamptonshire – US-Air Force); senza contare le Basi di supporto logistico di: Barford St John (US-Air Force); Bicester (US-Air Force); Chelveston/Rushden (US-Air Force); Eriswell (US-Air Force); Ipswich (US-Air Force); Newbury (US-Air Force); Newmarket (US-Air Force); Stanton (US-Air Force); Thetford (US-Air Force); Yildenhall (US-Air Force); London (US-Navy); St. Mawgan (US-Navy); Hythe (US-Army).

 

  • OLANDA: Soesterberg Air Base (US-Air Force); Eygelshoven (US-Army); Brunssum (US-Army); Schinnen (US-Army); Vriezenveen (US-Army); Rotterdam (US_Navy – US-Army); più altri 4 insediamneti[16]..

 

  • BELGIO: Bruxelles (Comando Nato); Mons (SHAPE Headquarters – Forze alleate in Europa – US-Army); Chievres (80° Air Support Group – US-Air Force); Brasschaat (Brasschaat – US-Air Force); Gendebien (US-Army);  Kleine Brogel Air Base (US-Air Force); Florennes Air Base (US-Air Force); Anversa (US-Navy); più una decina di altri insediamenti.

 

  • LUSSEMBURGO: Sanem (Esch-Alzette – US-Army); Bettembourg (Luxemburg – US-Army).

 

  • DANIMARCA: Thule Air Base (Thule, Groenlandia);.Karup Air Base (Karup – US-Air Force).

 

  • GERMANIA: (all’incirca 70 basi – Air-Force, US-Navy, US-Army – con una presenza di all’incirca 60’000 militari) – La maggior parte delle Basi USA sono concentrate nelle regioni di: Baden-Wuerttemberg, Renania-Palatinato, Assia e Baviera. Tra le sedi dei Comandi più importanti figurano :

 

–       Ramstein[17] (Ramstein, Rheinland-Pfalz – US-Air Force): da questo Comando dipendono i Sub-comandi di: Brasschaat (Mannheim-Sandhofen, Baden-Wuerttemberg); Patton Barracks[18] (Heidelberg, Baden-Wuerttemberg); Stuttgart (Stuttgart-Echterdingen, Baden-Wuerttemberg); Giebelstadt (Giebelstadt-Wuerzburg, Bayern); Grafenwoehr (Grafenwoehr, Bayern); Hohenfels-CMTC (Hohenfels-Regensburg, Bayern); Katterbach Barracks (Ansbach, Bayern); Storck Barracks (Illesheim, Bayern); Schweinfurt-Conn Barracks (Schweinfurt, Bayern); Armstrong Army Heliport (Buedingen, Hessen); Hanau-Fliegerhorst (Hanau, Hessen); Wiesbaden (Wiesbaden-Erbenheim, Hessen); Rhein-Main (Frankfurt/Main, Hessen); Geilenkirchen (Teveren, Nordrhein-Westfalen); Ramstein (Ramstein, Rheinland-Pfalz); Sembach (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz); Einsiedlerhof (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz); nonché le Basi aere di: Ramstein-Landstuhl (Ramstein, Rheinland-Pfalz); Rhein-Main Frankfurt, Spangdahlem (Spangdahlem, Rheinland-Pfalz), Büchel e Siegenburg-Mühlausen;

 

–       Heidelberg[19] (località: Heidelberg; regione: Baden-Wuerttemberg – US-Army) Divisioni: 1st Armored Division, Weisbaden; 1st Infantry Division, Wurzburg; 2nd Brigade, 1st Armored Division, Buamholder; 7th Army Reserve Command (ARCOM), Schwetzingen; Corpi d’Armata: V° Corps, Heidelberg; Comandi: U.S. Army Europe (USAREUR); Combat Maneuver Training Center; Landstuhl Regional Medical Center; nonché le caserme: Hammonds Barracks, Campbell Barraks, Tompkins Barracks, Stem Barracks, Hammond Barracks – più 10 altri insediamenti della US-Army;

 

–       Brasschaat[20] (Mannheim-Sandhofen, Baden-Wuerttemberg), con le seguenti caserme: Coleman Barracks, Spinelli Barracks, Turley Barracks, Sullivan Barracks, Funari Barracks – più altri 11 insediamenti US-Army nella stessa regione;

 

–       Stuttgart (Stuttgart-Echterdingen, Baden-Wuerttemberg – US-Army), con le seguenti caserme: Kelley Barracks, Robinson Barracks, Patch Barracks– più altri 13 insediamenti US-Army;

 

–       Hanau  (Hanau, Hessen – US-Army), con le seguenti caserme: Argonen Barracks, Fliegerhorst Barracks Pionier Barracks, Utier Barracks, Wolfgang Barracks, Yorkhof Barracks – più altri 6 insediamenti US-Army;

 

–     Wiesbaden (Wiesbaden-Erbenheim, Hessen ), Comando Intelligence Militare – più altri 9 insediamenti US-Army;

 

–       Rhein-Main (Frankfurt/Main, Hessen) – almeno 2 insediamenti US-Army e 2 US-Air Force;

 

–       Einsiedlerhof (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz) con le seguenti caserme: la GE-642 Armoured-Forces Barracks, Danner Barracks, Pulaski Barracks Rhine Barracks, Kleber Barracks – più altri 8 insediamenti US-Army e 4 US-Air Force;

 

–       Oltre ai Distaccamenti: Pendleton Barracks di Giessen (US-Army); Sheridan Barracks di Garmisch (US-Army); Larson Barracks di Kitzingen (US-Army); Johnson Barracks di Nürnberg (US-Army); Rose Barracks di Bad Kreuznach (US-Army); Pond Barracks di Amberg (US-Army); Warner Barracks di Bamberg (US-Army); Storck Barracks di Windsheim (US-Army); Smith Barracks di Baumholder (US-Army); McCully Barracks di Mainz (US-Army); Ledward Barracks di Schweinfurt (US-Army); Amstrong Barracks di Dexheim (US-Army); Anderson Barracks di Büdingen (US-Army);l’Eliporto di Landstuhl (US-Army), ecc.

 

  • POLONIA: Krzesiny Air base (regione di Poznan – US-Air Force); Gdansk (facilità portuali – US-Navy).

 

  • FRANCIA[21]: Istres Air Base (Marsiglia – Base logistica e di rifornimento US-Air Force), nonché Marsiglia e Tolone (facilità portuali  – US-Navy).

 

  • UNGHERIA: Taszár Air Base (Pecs/Paych – US-Air Force); Kaposvar Air Field (UH-60 Black Hawk helicopters e 127º Aviation Support Battalion – US-Army).

 

  • ITALIA: all’incirca 111 Basi USA[22] (US-Air Force, US-Navy, US-Army, NSA) e NATO (North Atlantic Treaty Organization o “Patto Atlantico”). Chi “comanda”, dunque, in Italia? Ecco la patriottica e provocatoria domanda che i cittadini degni di questo nome, dovrebbero insistentemente e sistematicamente porre ai nostri super-mediatizzati e farisaici politici di “destra”, di “centro” o di “sinistra”, nonché di “estrema-destra” e di “estrema-sinistra”!

 

Tra le basi USA più conosciute e meno conosciute, da Nord a Sud della Penisola:

 

Cima Gallina (BZ): Stazione telecomunicazioni e radar dell’US-Air Force (USAF).

Aviano Air Base (Pordenone, Friuli – US-Air Force): la 16ma Forza Aerea ed il 31° Gruppo da caccia dell’Aviazione U.S.A., nonché uno squadrone di F-18 dei Marines.

Roveredo in Piano (PN): Deposito armi e munizioni USA ed istallazione US-Air Force.

Monte Paganella (TN): Stazione telecomunicazioni USAF.

Rivolto (UD): Base USAF.

Maniago (UD): Poligono di tiro dell’US-Air-Force (USAF).

S. Bernardo (UD): Deposito munizioni dell’US-Army.

Istrana (TV): Base US-Air-Force (USAF).

Ciano (TV): Centro telecomunicazioni e radar USA.

Solbiate Olona (MI – Comando NATO Forze di pronto intervento – US-Army).

Ghedi (BS): Base dell’US-Air-Force (USAF).

Montichiari (BS): Base aerea (USAF).

Remondò (nel Pavese): Base US-Army.

Vicenza: Comando SETAF, Sud Europe Task Force; Quinta Forza aerea tattica (USAF); Deposito di testate nucleari.

Camp Ederle (provincia di Vicenza): Q.G. NATO; Comando SETAF dell’US-Army; un Btg. di obici e Gruppo tattico di paracadutisti USA.

Tormeno (San Giovanni a Monte, Vicenza): depositi di armi e munizioni.

Longare (Vicenza): importante deposito d’armamenti.

Verona: Air Operations Center (USAF). e Base NATO delle Forze di Terra del Sud Europa; Centro di telecomunicazioni (USAF).

Affi (VR): Centro telecomunicazioni USA.

Lunghezzano (VR): Centro radar USA.

Erbezzo (VR): Antenna radar NSA.

Conselve (PD): Base radar USA.

Monte Venda (PD): Antenna telecomunicazioni e radar USA.

Trieste: Base navale USA.

Venezia: Base navale USA.

San Anna di Alfaedo (VE): Base radar USA.

Lame di Concordia (VE): Base di telecomunicazioni e radar USA.

San Gottardo, Boscomantivo (VE): Centro telecomunicazioni USA.

Ceggia (VE): Centro radar USA.

Cameri (NO): Base aerea USA con copertura NATO.

Candela-Masazza (Vercelli): Base d’addestramento dell’US-Air-Force e dell’US-Army, con copertura NATO.

Monte S. Damiano (PC): Base dell’USAF con copertura NATO.

Finale Ligure (SV): Stazione di telecomunicazioni dell’US-Army.

Monte Cimone (MO): Stazione telecomunicazioni USA con copertura NATO.

Parma: Deposito dell’USAF con copertura NATO.

Bologna: Stazione di telecomunicazioni del Dipartimento di Stato Americano.

Rimini: Gruppo logistico USA per l’attivazione di bombe nucleari.

Rimini-Miramare: Centro telecomunicazioni USA.

Potenza Picena (MC): Centro radar USA con copertura NATO.

Livorno: Base navale USA.

La Spezia: Centro antisommergibili di Saclant.

San Bartolomeo (SP): Centro ricerche per la guerra guerra sottomarina.

Camp Darby (tra Livorno e Pisa): 8° Gruppo di supporto USA e Base dell’US Army per l’appoggio alle Forze statunitensi al Sud del Po, nel Mediterraneo e nell’Africa del Nord.

Coltano (PI): importante base USA/NSA per le telecomunicazioni; Deposito munizioni US-Army; Base NSA.

Pisa (aeroporto militare): Base saltuaria dell’USAF.

Monte Giogo (MS): Centro di telecomunicazioni USA con copertura NATO.

Poggio Ballone (GR) – tra Follonica, Castiglione della Pescaia e Tirli: Centro radar USA con copertura NATO.

Talamone (GR): Base saltuaria dell’US-Navy.

La Maddalena-Santo Stefano (Sassari): Base atomica USA, Base di sommergibili, Squadra navale di supporto alla portaerei americana «Simon Lake».

Monte Limbara (tra Oschiri e Tempio, Sassari, in Sardegna): Base missilistica USA.

Sinis di Cabras (SS).: Centro elaborazioni dati (NSA).

Isola di Tavolara (SS): Stazione radiotelegrafica di supporto ai sommergibili della US Navy.

Torre Grande di Oristano: Base radar NSA.

Monte Arci (OR): Stazione di telecomunicazioni USA con copertura NATO.

Capo Frasca (OR): eliporto ed impianto radar USA.

Santulussurgiu (OR): Stazione telecomunicazioni USAF con copertura Nato.

Perdas de Fogu (NU): base missilistica sperimentale.

Capo Teulada (CA): da Capo Teulada (CA) a Capo Frasca (OR): all’incirca 100 km di costa, 7.200 ettari di terreno e più di 70.000 ettari di zone Off Limits: poligono di tiro per esercitazioni aeree ed aeronavali della Sesta flotta americana e della Nato.

Decimomannu (CA): aeroporto Usa con copertura Nato.

Aeroporto di Elmas: Base aerea dell’US-Air-Force.

Salto di Quirra (CA): poligoni missilistici.

Capo San Loremo (CA): zona di addestramento per la Sesta flotta USA.

Monte Urpino (CA): Depositi munizioni USA e NATO.

Cagliari: Base navale USA.

Roma-Campino (aeroporto militare): Base saltuaria USAF.

Rocca di Papa (Roma): Stazione telecomunicazioni USA con copertura NATO.

Monte Romano (VT): Poligono saltuario di tiro dell’US-Army.

Gaeta (LT):  Base permanente della Sesta Flotta USA e della Squadra navale di scorta alla portaerei «La Salle».

Casale delle Palme (LT): Scuola telecomuncicazioni NATO su controllo USA.

Napoli: Comando del Security Force del corpo dei Marines; Base di sommergibili USA; Comando delle Forze Aeree USA per il Mediterraneo.

Napoli-Capodichino: Base aerea dell’US-Air-Force.

Monte Camaldoli (NA): Stazione di telecomunicazioni USA.

Ischia (NA): Antenna di telecomunicazioni USA con copertura Nato.

Nisida: Base US-Army.

Bagnoli: Centro controllo telecomunicazioni Usa per il Mediterraneo.

Agnano (nelle vicinanze del famoso ippodromo): Base dell’US-Army.

Cirigliano.(NA): Comando delle Forze Navali USA in Europa.

Licola (NA): Antenna di telecomunicazioni USA.

Lago Patria (CE): Stazione telecomunicazioni USA.

Giugliano (vicinanze del lago Patria, Caserta): Comando STATCOM.

Grazzanise (CE): Base saltuaria USAF.

Mondragone (CE): Centro di Comando USA e NATO sotterraneo antiatomico.

Montevergine (AV): Stazione di comunicazioni USA.

Pietraficcata (MT): Centro telecomunicazioni USA/NATO.

Gioia del Colle (BA): Base aerea USA di supporto tecnico.

Punta della Contessa (BR): Poligono di tiro USA/NATO.

San Vito dei Normanni (BR): Base del 499° Expeditionary Squadron; Base dei Servizi Segreti: Electronics Security Group (NSA).

Monte Iacotenente (FG): Base del complesso radar Nadge.

Brindisi: Base navale USA.

Otranto: Stazione radar USA.

Taranto: Base navale USA; Comando COMITMARFOR; Deposito USA/NATO.

Martina Franca (TA): Base radar USA.

Crotone: Stazione di telecomunicazioni e radar USA/NATO.

Monte Mancuso (CZ): Stazione di telecomunicazioni USA.

Sellia Marina (CZ): Centro telecomunicazioni USA con copertura NATO.

Sigonella (CT): importante Base aeronavale USA (oltre ad unità della US-Navy, ospita diversi squadroni tattici dell’US-Air-Force: elicotteri del tipo HC-4, caccia Tomcat F14 e A6 Intruder, nonché alcuni gruppi di F-16 e F-111 equipaggiati con bombe nucleari del tipo B-43, da più di 100 kilotoni l’una!).

Motta S. Anastasia (CT): Stazione di telecomunicazioni USA.

Caltagirone (CT): Stazione di telecomunicazioni USA.

Vizzini (CT): Diversi depositi USA.

Isola delle Femmine (PA): Deposito munizioni USA/NATO.

Punta Raisi (Aeroporto): Base saltuaria dell’USAF.

Comiso (Ragusa – insediamento US-Air Force).

Marina di Marza (RG): Stazione di telecomunicazioni USA.

Monte Lauro (SR): Stazione di telecomunicazioni USA.

Sorico: Antenna NSA.

Augusta (SR): Base della VI Flotta USA e Deposito munizioni.

Centuripe (EN): Stazione di telecomunicazioni USA.

Niscemi (Sicilia): Base del NavComTelSta (stazione di comunicazione US-Navy).

Trapani: Base USAF con copertura NATO.

Pantelleria: Centro telecomunicazioni US-Navy e Base aerea e radar NATO.

Lampedusa: Base della Guardia costiera USA; Centro d’ascolto e di comunicazioni NSA.

 

  • SPAGNA: NAS Rota (Rota, Cadice – US-Navy – US-Army); Moron Air Base (Moron de la Frontiera, Siviglia – US-Air Forces); Torrejion Air Base (vicino Madrid – US-Air Force); Zaragoza Air Base (US-Air Force); San Vito (US-Air Force); nonché le Basi navali di appoggio e di facilità portuarie di: Alicante, Barcellona, Benidorm, Cartagena, Malaga, Palma de Maiorca (US-Navy).

 

  • PORTOGALLO: Horta (Falai Island, Azores – US-Navy); Lajes Field Air Base (Terceira Island, Azores – US-Air Force); San Miguel (Azores – US-Air Force); Villa Nova (Azores – US-Air Force); Santa Maria (Azores – US-Air Force); Praia Da Victoria (Azores – US-Air Force); San Jorge (US-Navy); più una decina di distaccamenti della US-Navy e della US-Army (Azores).

 

  • BOSNIA ERZEGOVINA: Camp Comanche (Tuzla – US-Army); Camp Eagle (Tuzla – US-Army); Camp Dobol (US-Army); Camp McGovern (Brcko – US-Army).

 

  • KOSSOVO: Camp Bondsteel (Urosevac – US-Army).

 

  • MONTENEGRO: Camp Monteith (Gnjilane – US-Army).

 

  • MACEDONIA: Camp Able Sentry (Skopje – US-Army).

 

  • ROMANIA: Costanza (Mar Nero – US-Navy – US-Air Force); Mihail Kogalniceanu Air Base (US-Air Force); Agigea (in costruzione – US-Navy) ; Babadag (in costruzione – US-Army).

 

  • BULGARIA: Sarafovo Air Base (Burgas – Gruppo del 49° Expeditionary Corp – US-Air Force); Camp Sarafovo (US-Army); Bezmer e Novo Selo (due basi in costruzione – US-Army).

 

  • GEORGIA: Base navale (informale) di Supsa (Mar Nero – US-Navy).

 
 
Basi USA nel  Sud del Mediterraneo
 
 

  • GRECIA: Iraklion/Eleusis (Atene – US-Navy); Hellenikon Air Base (nei pressi di Atene – US-Air Force); Aktion (Costa ionica – US-Air Force); Souda Bay (Chania, Creta – US-Navy); nonché le Basi appoggio e di facilità portuaria di Corfù e Rodi (US-Navy).

 

  • CIPRO GRECA: Nicosia (base logistica saltuaria – US-Air Force); Larnaca (facilità portuarie – US-Navy).

 

  • TURCHIA: Ankara (Comando US-Air Force); Batman Air Base (US-Air Force); Buyuk-Cigli Air Base (US-Air Force); Incirlick-Adana (39º Air Expeditionary Wing – US-Air Force); nonché le Basi aeree di Izmir, Corlu, Konya, Diyarbakir e Mus (US-Air Force) e le Basi di appoggio e di facilità portuaria di Istambul, Izmir, Mersin e Iskenderun (US-Navy) – più una decina di altri insediamenti US-Army.

 

  • CIPRO TURCA: Famagosta (US-Navy); Rizocarpaso (NSA)

 

  • EGITTO: Cairo (3º NavMedRschu – US-Navy); Alessandria (US-Navy); Hurgada (Mar Rosso – US-Navy);

 

  • ISRAELE: Haifa (US-Navy).

 

Questo, naturalmente, senza prendere in conto le facilità di attraversamento dello spazio aereo, di atterraggio, di rifornimento e di supporto logistico accordate – de iure o de facto – agli aerei ed agli elicotteri militari dell’US-Air Force (com’è accaduto nel corso dell’aggressione all’Iraq nel 2003), dalla Svizzera, dall’Irlanda, dall’Austria, dalla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca, dalla Slovenia, dalla Croazia, dalla Georgia, ecc.; né tanto meno dimenticare le facilità d’ormeggio e di rifornimento permanenti o saltuarie concesse usualmente all’US-Navy dal Marocco, Tunisia, Gibilterra e Malta.
 
 

Basi USA nel Vicino Oriente ed Oceano Indiano
 
 

Da Nord a Sud, tra le più importanti:

 

  • KIRGHIZISTAN: Manas/Ganci (regione di Bishkek – US-Air Force); Qarshi Hanabad (86º Rapid Deployment Unit – US-Army)

 

  • UZBEKISTAN: Kandabad Air Base (Karshi – US-Air Force); Karshi Barracks (10ª Divisione di montagna – US-Army).

 

  • AZERBAIGIAN :  Kurdamir, Nasosnaya, Guyullah (3 Basi aeree in corso di ammodernamento/realizzazione – US-Air Force).

 

  • TAGIKISTAN: Tagikistan Air Base (US-Air Force); Khojand, Kulyab, Turgan-Tiube (3 Basi US-Air Force e US-Army, in trattativa per la loro costruzione).

 

  • AFGHANISTAN; Mazar-e-Sharif Air Base (US-Air Force); Pul-i-Kandahar (Kandahar Air Field – US-Air Force), Shindand Air Base (Heart – US-Air Force); Khost Air Base (Paktia – US-Air Force); Bagram (Charikar, Parvan – BAF – US-Air Force); Kandahar (101ª Airborne Division – US-Army); Asadabad (US-Army); Heart (US-Army); Gardez (Paktia – US-Army); Mazar-e-Sharif (Task Force 121 – US-Army); Nimrouz (US-Army – in costruzione); Helmand (US-Army – in costruzione) – nonché le Basi di Orgun, Shkin e Sharan (provincia di Paktika – US-Army).

 

  • PAKISTAN: Dalbandin Air Base (US-Air Force); Jacobabad Air Base (US-Air Force); Pasni (US-Air Force); Shahbaz Air Base (US-Air Force); Jacobabad Camp (US-Army); Khowst (US-Army).

 

  • IRAQ: 14 Basi permanenti (“enduring” military bases – con la presenza di all’incirca 110’000 uomini – US-Army); Baghdad Air Base (US-Air Force); più le Speciali Basi di: Bashur (Kurdistan – US-Army) ; Talil (nei pressi dell’Aeroporto di Baghdad – US-Air Force) ; Base H-1 (deserto occidentale iracheno – US-Army) ; Nassiriya (Sud del paese – US-Army).

 

  • GIORDANIA: Muafaq Salti (US-Army);

 

  • KUWAIT: Ahmed al-Jaber Air Base (US-Air Force);  Ali Al Salem Air Base (US-Air Force); Camp Doha (US-Air Force); Camp Udairi (Kuwait-City – US-Army); Camp Doha (Ad-Dawhah – Quartier Generale della 3ª Armata – US-Army), Ali al-Salem (US-Army);

 

  • ARABIA SAUDITA: Prince Sultan Air Base  (alla periferia di Riad – US-Air Force); King Abdul Aziz Air Base (Dhahran – US-Air Force); Eskan Village Air Base (US-Air Force); King Fahd (Taif – US-Air Force); King Khaled (Khamis Mushayt – US-Air Force); Al-Kharj (US-Air Force); Exmouth (US-Navy); più 5 istallazioni US-Army.

 

  • EMIRATI ARABI UNITI: Al Dhafra/Sharjah (763º Squadrone dell’Expeditionary Air Refueling – US-Air Force); Al Dhafra Air Base (Abu Dhabi – US Air Force).

 

  • QATAR: Al Udeid (US-Air Force); Al-Sayliyah (US-Air Force);  

 

  • OMAN: Thumrait (305º Squadrone dell’Air Expeditionary Force – US-Air Force); Dhuwwah/Masirah Island (US-Air Force); Seeb (US-Air Force); Salalah (US-Air Force);

 

  • BAHREIN: Sheik Isa (Sitrah, Golfo Arabo-Persico – US-Air Force); Muharraq Air Field (US-Air Force); Juffar (Quartier Generale della Vª Flotta americana – US-Navy).

 

  • YEMEN: Base navale di Aden (US-Navy).

 

  • GIBUTI: (Corno d’Africa): Le Monier Barracks (US-Air Force); Gibuti/Le Monier (US-Navy).

 

  • DIEGO GARCIA: (Oceano Indiano): Diego Garcia Air Base (US-Air Force); Diego Garcia (Naval base and support facilities – US-Navy).

 
 
 
Basi  “Echélon” in Europa, Sud Mediterraneo e Vicino Oriente
 
 

Gestite e coordinate dal Comando generale statunitense della NSA (National Security Agency) di Fort Meade (nel Maryland), organizzate in cooperazione con i servizi segreti britannici GCHQ (Government Communications Head Quarters), canadesi CSE (Communications Security Establishment), australiani DSD (Defence Signals Directorate) e neo-zelandesi GCSB (Government Communications Security Bureau), e spesso mimetizzate sotto le mentite spoglie di banali imprese di telecomunicazioni private, le Basi d’ascolto, di spionaggio elettronico e d’elaborazione dati del programma americano Echélon (che già dispone – oltre alle usuali “stazioni” di spionaggio che sono integrate nella normale rete diplomatica e consolare statunitense nel mondo – di una ventina di satelliti spia della National Reconaissance Office – del tipo Keyhole, Mercury, Sigint, Parsae, Comint, Orion/Vortex, Mentor, Trompet, ecc. – e di una trentina di Boeing RC-135 che giorno e notte – da centinaia di chilometri, nel cielo – sono in grado di intercettare, registrare e controllare –  e, se necessario, “piratare” –  qualsiasi comunicazione radio, telefonica, fax, cellulare ed internet, e persino fotografare e decifrare, con altissima risoluzione – come nel caso dei satelliti “Advanced KH-11” e “KH-12” – l’indirizzo di una cartolina postale che state spedendo ad un vostro amico o conoscente!), coprono praticamente l’intero pianeta, con all’incirca 4’000 “antenne” disseminate nei diversi paesi (molte volte completamente all’oscuro di tutto) del mondo. In Europa, le principali Basi del programma Echélon – che agiscono sotto l’egida dei Comandi regionali USA di Morenstow e di Menmith Hill, in Gran Bretagna, e di Bad Aibling, in Germania (Baviera) – sono installate nelle seguenti località (da Nord a Sud): in Islanda: Keflavik; in Lituania: Vilnius; in Estonia: Tallinn; in Lettonia (Latvia): Ventspils; in Finlandia: Santahamina; in Svezia: Karlskrona, Muskö e Lovön; in Norvegia: Borhaug, Jessheim, Fauske/Vetan, Randaberg, Kirkenes, Skage/Namdalen, Vardo e Vadso;  in Gran Bretagna: Belfast (Irlanda du Nord), Brora e Hawklaw (Scozia), Chicksands, Culm Head, Cheltenham, Digby, Menwith Hill, Irton Moor, Molesworth, Morwenstow, Londra (Palmer Street); in Danimarca: Aflandshage, Almindingen, Dueodde-Bornholm, Gedser, Hjorring, Logumkloster; in Olanda: Amsterdam e Viksjofellet; in Germania: Frankfurt, Bad Aibling, Ahrweiler, Hof, Achern, Bad Münstereifel, Darmstadt, Braunschweig, Husum, Monschau, Mainz, Rheinhausen, Stockdorf, Pullach, Vogelweh; in Francia: Parigi (GIX: Global Internet Exchange), Strassburgo e Grenoble; in Austria: Neulengbach e Konigswarte; in Svizzera: Merishausen e Rüthi; in Croazia: isola di Brac ed aeroporto di Zagreb-Lucko; in Bosnia-Erzegovina: Tuzla; in Spagna: Playa de Pals, Pico de las Nieves (Grande Canaria), Manzanares e Rota; in Portogallo: Terceira Island (isole Azores); a Gibilterra (Gibraltar); in Albania: Tirana, Durazzo (Durrës) e Shkodër; in Grecia: Iráklion (Creta); nell’isola di Cipro: Ayios Nikolaos; in Turchia: Istanbul, Izmir, Adana, Agri, Antalya, Diyarbakir, Edirne, Belbasi, Sinop, Strait, Samsun; in Israele: Herzliyya (Q.G. dell’Unità 8200), Mitzpah Ramon, Monte Hermon, Golan Heights Monte Meiron; nel Pakistan: Parachinar; nel Kuwait: Kuwait-City e l’isola di Faylaka; in Arabia Saudita: Araz, Khafji; negli Emirati Arabi Uniti: Az-Zarqa, Dalma, Ras al-Khaimah e sull’isola di Sir Abu Nuayr; nell’Oman: Abut, Khasab, isole di Goat e di Masirah, penisola di Musandam; nello Yemen: isola di Socotra.

 

Diciamocelo francamente: gli Stati Uniti d’America, senza l’immane e tentacolare apparato militare che sono riusciti ad installare, mantenere e sviluppare all’interno dei nostri paesi – e senza la complicità[23] diretta o indiretta dei nostri prezzolati ed indegni uomini politici (rei, per quel loro comportamento, di Alto tradimento nei confronti delle nostre rispettive Patrie) – potrebbero continuare a ricattare militarmente e politicamente la nostra area geopolitica e, quindi, arbitrariamente pretendere di dominare economicamente e culturalmente l’insieme dei nostri Popoli e delle nostre Nazioni? Avrebbero potuto, in qualche modo, essere in grado di scatenare una nuova guerra contro l’Iraq (2003), per impadronirsi – a nostro diretto svantaggio e pregiudizio – della quasi totalità delle riserve petrolifere[24] del mondo? Potrebbero impunemente continuare a fomentare disordini e focolai di tensione in Europa, nei paesi del Mediterraneo ed in quelli del Vicino Oriente, per meglio giustificare il mantenimento sine die delle loro basi militari all’interno dei nostri territori? Certo che non potrebbero.

 

Allora, prendiamo coscienza del problema capitale delle nostre rispettive società: ovvero, l’effettivo problema che pregiudica ed impedisce qualunque nostro possibile, sperabile e concretizzabile sogno d’autentica e tangibile libertà, indipendenza, autodeterminazione e sovranità, sia come uomini, sia come popoli, sia come stirpi, sia come culture, sia come civiltà.
 
 
 

* Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, scrittore e giornalista, è specialista in Economia Politica, Islamologia e Religioni del Medio Oriente. Per diciotto anni, collaboratore di “Panorama” ed oltre venti, Corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra.

 
 
Questo articolo è stato pubblicato su EURASIA – Rivista di Studi Geopolitici – Anno IIº – Numero 3 – Ottobre/Dicembre 2005 – pp. 81-94.



 
 
NOTE:
 
[1] Una potenza che – secondo il “Bases Structure Report 2002” del Dipartimento statunitense della Difesa – possederebbe più di 720 Basi militari disseminate nel mondo.

[2] Secondo C.T. Sandars, il Presidente Harry Truman, nel corso della Conferenza di Potsdam del 7 Agosto 1945. avrebbe dichiarato quanto segue :“Benchè gli Stati Uniti non desiderino profitto o vantaggio egoista da questa guerra, manterremo le basi militari necessarie per la protezione completa dei nostri interessi e della pace del mondo. Le basi che i nostri esperti militari riterranno essere essenziali per la nostra protezione, noi le acquisteremo. Le acquisteremo tramite consistenti arrangiamenti e con l’autorizzazione delle Nazioni Unite” (C.T. Sandars,“America’s Overseas Garnisons: The Leasehold Empire”, Oxford University Press, Oxford, 2000, pag. 5). E’ stato proprio così?

[3] In merito, si legga il mio studio Gli occhi bendati sul Golfo, Jaca Book, Milano, 1991.

[4] Sostegno militare, politico ed economico statunitense all’instaurazione, nel cuore stesso dell’Europa, di compagini musulmane – in Bosnia, in Albania e nel Kosovo – strettamente infeudate a Washington secondo la strategia della “dorsale verde”, un cuneo islamico da porre tra l’Europa centro-occidentale e la Russia;; senza dimenticare l’appoggio incondizionato della Casa Bianca ai “falchi” d’Israele e la sua chiara volontà di mettere i “bastoni tra le ruote” ad una qualunque soluzione pacifica e negoziata della “Questione palestinese”.

[5] Molto importante è il libro di Marina Montesano, Mistero americano. Ipotesi sull’11 settembre (Dedalo, Bari, 2004), che semplicemente mettendo a confronto le notizie apparse su fonti a stampa britanniche e statunitensi (e non le opere dei fautori del “complotto”) dimostra quantomeno che la versione ufficiale sull’11 settembre non sta assolutamente in piedi.

[6] Secondo la Risoluzione 3314 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Dicembre 1974), l’invasione militare anglo-americana dell’Iraq del 2003 poteva senz’altro essere considerata una “guerra di aggressione” ed un “crimine contro la pace”.  Come mai l’ONU non ha ritenuto opportuno applicarla (o almeno evocarla) nei confronti di Washington e di Londra?

[7] Notizia ufficialmente annunciata dal Generale James Jones, Comandante dell’U.S. European Command, in un’intervista rilasciata alla rivista Jane’s Defence Weekly (29 Ottobre 2003), in questi termini : “La rete delle basi degli Stati Uniti in Europa deve cambiare per venire a contatto con l’odierna situazione geopolitica, dove il grande-Vicino Oriente si ritiene che sia il centro geografico di interesse”.

[8] In particolare: incoraggiamento e supporto – a discapito degli interessi di Mosca – alla guerriglia cecena (sottobanco, naturalmente…); al nuovo corso “liberista” in Georgia; alla “rivoluzione arancione” in Ucraina ed ai diversi tentativi di destabilizzazione politica in Bielorussia; incitamento ed aiuti finanziari alle fazioni anti-siriane del Libano, a danno dell’influenza di Damasco nella regione; minaccia (e preparativi?) di intervento militare contro l’Iran, ecc.

[9] E’ comunque curioso… che, fino ad oggi, nessun giornalista o ricercatore dell’Europa, del Vicino-Oriente e/o del mondo, abbia avuto l’idea di accertare dove possano realmente andare a finire, dal 2003, i ricavati della vendita giornaliera di all’incirca 3 milioni di barili di petrolio iracheno (ad una media di 50 USD al barile, lascio fare il conto al lettore!). Visto, in  particolare, che quelle importanti quantità di “oro nero” sono, ogni giorno, regolarmente immesse sui mercati internazionali e la relativa “manna finanziaria” non finisce assolutamente nelle casse dell’attuale “Stato fantoccio” dell’Iraq!

[10] Per fugare ogni dubbio sul fatto che gli odierni gli Stati Uniti costituiscano una cesura con la loro storia precedente e persuadersi invece che se dal principio le intenzioni sono quelle che oggi si palesano, si leggano i segg. studi di John Kleeves: Vecchi trucchi, Il Cerchio, Rimini, 1991; Un paese pericoloso. Storia non romanzata degli Stati Uniti d’America, Barbarossa, Milano, 1998. Ancora di un certo interesse è il volume Il male americano, di Giorgio Locchi e Alain De Benoist, LedE, Roma, 1978.

[11] Confinati, naturalmente, all’interno di quel vasto “pollaio” (in latino: gallinarium, ii), dai fili spinati artatamente occultati o strumentalmente mascherati, che abbiamo ormai preso la spensierata ed irresponsabile abitudine – tra un usuale “stridere”o un “crocchiare” ed un saltuario e contingente”schiamazzare”… – di considerare il massimale e privilegiato perimetro della nostra individuale e collettiva “libertà”, “indipendenza”, “autodeterminazione” e “sovranità” politica, economica, culturale e militare!

[12] Elenco aggiornato a Giugno 2005.

[13] Come riporta il sito web Kelebek http://www.kelebekler.com (articolo intitolato: “Hiroshima, Italia. Le nostre armi di distruzione di massa”), Hans Kristensen, uno specialista del Natural Resources Defense Council (NRDC) ed autore di un rapporto sulle armi atomiche in Europa, ha rivelato al quotidiano L’Unità (10.02.2005) che sul nostro Continente ci sarebbero attualmente “ben 481 bombe nucleari, dislocate in Germania, Gran Bretagna, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. In Italia ve ne sono 50 nella base di Aviano e altre 40 in quella di Ghedi Torre, in provincia di Brescia”.

[14] North Atlantic Treaty Organization.

[15] National Security Agency

[16] Per insediamenti, bisogna intendere: medi e piccoli acquartieramenti militari, basi per il lancio di missili, depositi (per carri armati, automezzi, artiglieria, munizioni e pezzi di ricambio), stazioni d’ascolto e/o radio, nonché villaggi, ospedali, centri di riposo e di svago per il personale civile e militare statunitense che è permanentemente basato nel paese.

[17] Sede del Quartier Generale della US-Air Force.

[18] Caserma o acquartieramento importante (in inglese: “Barracks”).

[19] Sede del Quartier Generale della US-Army.

[20] Quando è citato soltanto il nome della città, in neretto, trattasi di sede di Comando regionale.

[21] Nonostante che la Francia, dal 7 Agosto 1966, rifiuti ufficialmente di ospitare Basi USA o NATO.

[22] Gli USA sono riusciti ad impiantare le loro Basi, in Italia – e continuano indisturbati a mantenerle e ad aumentarle – sulla base di: 1)- Le clausole segrete della “Convenzione d’Armistizio” del 3 Settembre 1943;  2)- Le clausole segrete del “Trattato di pace” imposto all’Italia, il 10 Febbraio del 1947 (Parigi);  3)- Il “Trattato NATO” firmato a Washington il 4 Aprile 1949, entrato in vigore il 1 Agosto 1949;  4)- “L’Accordo segreto USA-Italia” del 20 ottobre 1954 (Accordo firmato esclusivamente dai rappresentanti del Governo di allora e mai sottoposto alla verifica, né alla ratifica del Parlamento); 5)- Il “Memorandum d’intesa USA-Italia” o “Shell Agreement”  del 2 Febbraio 1995.

[23] Sarebbe peggio, se si trattasse soltanto di indolenza, noncuranza o inabilità!

[24] Situazione che potrebbe addirittura essere incrementata e completata, se gli USA decidessero (come stanno già facendo…) di continuare a destabilizzare la Repubblica Islamica d’Iran o (come sembra sia in programma…) di scatenare una vera e propria invasione/occupazione militare nei confronti di questo paese.

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Prospettive geopolitiche della politica venezuelana

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Senza dubbio Hugo Rafael Chávez Frías, attuale presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, è un personaggio centrale nella dinamica delle relazioni internazionali nella regione. In questo articolo ci proponiamo di utilizzare alcuni elementi teorici che furono sviluppati dal filosofo economista Max Weber (1864-1920), che consideriamo utili per una comprensione più nitida del peso della funzione di guida del presidente venezuelano. L’analisi richiederebbe una maggiore trattazione per ottenere un esautiva comprensione della movimento “chavista”, ma gli elementi che apportiamo ci consentiranno di comprendere meglio la realtà interna del Venezuela e la sua proiezione in campo internazionale.

 

Nella prima sezione ci occupiamo della descrizione del processo di formazione della sua guida carismatica nel tempo, menzionando gli aspetti teorici descritti da Weber. Tenendo presente la forza política che è insita nella sua persona, analizzeremo nella seconda sezione la situazione interna venezuelana in vista delle elezioni presidenziali di ottobre ed infine volgeremo la nostra attenzione alla politica estera di Chávez. Ci serviremo infine del contributo di Roberto Russell e Juan G. Tokatlian [1] sui modelli di politica estera in America Latina.

 

I-La formazione del capo

 

Nel 1992 la società venezuelana, organizzata intorno al petrolio, era (e ancora rimane) profondamente polarizzata. L’oro nero sembrava un grande muro che separava i settori dell’ élite – beneficiarie delle risorse fiscali generate dalle attività – dalle masse per lo più vessate da ingiustizie sociali.

Il 4 febbraio Hugo Chávez irrompe sulla scena politica alla guida di un tentativo di colpo di Stato nei confronti del presidente Carlos Andrés Pérez. L’allora comandante del Battaglione Paracadutisti, consapevole della sconfitta, si assunse la responsabilità per il  movimento militare ribelle, ma da allora non sarebbe più tornato indietro: la formazione del suo “potere” ebbe inizio.

In prigione, la sua figura acquisirà le proprie caratteristiche di guida carismatica. Durante il soggiorno in carcere contribuisce alla stesura di un manifesto intitolato Come uscire dal labirinto, dove propone soluzioni alla grave crisi che colpisce i settori più deboli della popolazione venezuelana [2]. Di lì invia messaggi al popolo, chiedendone l’astensione dalle elezioni presidenziali del 1993; frattanto guadagna un maggiore sostegno e diventa come eroe popolare.

 

Max Weber definisce il carisma del capo come “(…) la qualità, straordinaria (…)” e specifica: “Il modo in cui sarebbe stata valutata “oggettivamente” la qualità in questione (…) è cosa del tutto indifferente rispetto al nostro concetto, perché ciò che conta è come si valora dai “dominati” carismatici, dai tifosi [3]”. Pertanto, per parafrasare Weber, il modo in cui sarebbe stato valutato oggettivamente il carisma di Chávez è indifferente, perché ciò che conta è essere valutato dai seguaci. In questo senso è innegabile che la maggioranza della società – stanca dell’emarginazione causata dall’ applicazione di misure economiche neoliberali – vide la figura di Chávez quale alternativa ad un sistema politico iniquo e di conseguenza gli diede il suo sostegno.

Le elezioni presidenziali del dicembre 1998 permisero a Chávez di fare un ulteriore passo nel consolidamento della sua funzione di capo; Weber dice in proposito: “Nel caso che non sia puramente effimera, ma prenda il carattere di un rapporto duraturo (…) l’autorità carismatica (…) deve variare sostanzialmente il suo carattere: si razionalizza (legalizza) o tradizionalizza… (…) [4]. Quindi, trionfando con il 56,5% dei voti, la sua figura si legittimava e si affermava come il governo normale e legale dello Stato venezuelano.

L’arrivo alla presidenza confermò quella frase che recita: “Il carisma è la grande forza rivoluzionaria in tempi associati con la tradizione [5]. La sua ascesa al potere significò un cambiamento nella coscienza e nell’azione di un popolo tradizionalmente emarginato. Chávez, rivoluzionando le strutture, fece del popolo il soggetto politico principale. La Costituzione fu modificata: mettendo fine al bipartitismo, il legame con il popolo veniva consolidato ed il capo massimo si identificava con la rivoluzione bolivariana [6].

 

II-Dimensione interna

 

Chávez al potere ha rappresentato la continuazione di un conflitto sociale elevato. Nonostante i cambiamenti, sono persistite certe caratteristiche della “Democrazia puntofijista [7]”: lentezza burocratica, corruzione e inefficienza istituzionale.

Le elezioni parlamentari del 2010 hanno espresso l’erosione della base sociale della rivoluzione: il partito al governo ha perso la sua maggioranza qualificata – due terzi – in seno all’Assemblea Nazionale. La questione acquista maggiore rilevanza in relazione alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2012. Chávez non vincerebbe comodamente, per cui risulterebbero piuttosto deboli le basi di un progetto politico che invece richiede basi molto solide, se si vogliono realizzare le riforme rivoluzionarie necessarie per lo sviluppo del socialismo nel XXI secolo.

La malattia di Chávez aggiunge una difficoltà in più. E’ raro che i capi carismatici siano facilmente sostituibili, tanto strettamente la vita del presidente è associata con la vita del progetto. Roger Noriega ha detto a tale proposito che esiste un piano militare d’emergenza che garantirebbe la sopravvivenza del regime in caso di scomparsa fisica del capo [8].

Fino al 2010 l’opposizione era stata dura solo in termini di violenza (fallito colpo di Stato del 2002 e blocco petrolifero dello stesso anno), ma non aveva un peso popolare. Ora, consigliata dall’esterno, essa ha operato un cambiamento strategico mostrandosi al mondo come la resistenza al “regime totalitario”. Eppure, il partito al potere è sicuro per quanto riguarda la capacità destabilizzatrice degli avversari; a tal proposito l’11 aprile 2012 Hugo Chávez ha denunciato l’esistenza di un nuovo complotto contro di lui ed ha ordinato la creazione di un Comando Speciale “antigolpe”.

 

III-Relazioni Internazionali

 

Gli anni ’90 furono il decennio del quasi totale allineamento latinoamericano a Washington; fu precisamente Hugo Chávez, alla fine del secolo, il primo ad abbandonare questa strategia. Secondo la tipologia di Russell e Tokatlian, il Venezuela si imbarcherebbe – soprattutto dopo il 2002 – su un modello di politica estera chiamato “la sfida”.

Chávez ha identificato gli Stati Uniti come un nemico; così ha interposto distanze politiche per controbilanciare il potere sia a livello regionale che globale.

A livello regionale – sempre seguendo il modello teorico proposto – è stato fatto un uso significativo di risorse simboliche e materiali per diffondere il progetto rivoluzionario.  La grande capacità discorsiva e l’uso di termini carichi di significato storico hanno aiutato Chavez ad ottenere un notevole consenso sociale nel subcontinente. Il IV Vertice delle Americhe, nel 2005, ha bocciato definitivamente il progetto di una zona di libero scambio continentale (ALCA) aggiungendo il rifiuto di Argentina e Brasile – fatto che ha segnato una significativa sconfitta per l ‘imperialismo statunitense.

La comunanza ideologica che unisce Chávez con Evo Morales (Bolivia), Rafael Correa (Ecuador) ed in generale con la maggioranza dei presidenti latinoamericani trasforma l’area ancor di più in un terreno fertile per il fiorire delle idee della rivoluzione bolivariana.

A livello extra-regionale è più evidente il revisionismo chavista. Le reti di alleanze favorite da Caracas attaccano direttamente gli interessi degli Stati Uniti – basti pensare ai legami con l’Iran. È interessante notare che queste relazioni sembrano ispirate da criteri della Guerra Fredda: Pechino e Mosca diventano di questo modo, sebbene simbolicamente, alleati vitali.

In ambito internazionale la rivoluzione trova un sentiero stretto. Grandi attori statali accompagnati dal potere economico e finanziario transnazionale non guardano con favore il presidente del Palazzo Miraflores e quindi le elezioni di ottobre sono fondamentali: se Chávez ottiene una vittoria di stretta misura, i suoi nemici esterni non esiteranno a lanciare l’offensiva finale, che ovviamente sarà sfruttata dai nemici interni.

 

Riflessioni

 

La rivoluzione lotta su tre fronti: il primo avrà il suo momento culminante il 7 ottobre, nelle elezioni presidenziali. Chávez ha la possibilità di vincere, ma l’esito più favorevole sarebbe una vittoria con un ampio margine di voti, che gli consentirebbe di rilegittimarsi e di riaffermare con forza il progetto bolivariano. Potrebbe essere il momento per trasferire un certo margine di potere al popolo e quindi diminuire l’elevato livello di paternalismo. In caso contrario, la rivoluzione sarebbe un gigante dai piedi d’argilla ed i suoi avversari avrebbero l’opportunità di sferrare l’attacco finale.

Il secondo è il fronte regionale, potenzialmente fertile per le idee bolivariane.

La zona extraregionale è l’ultimo fronte della battaglia ideologica. Il suo esito appare al momento negativo, in quanto l’ordine internazionale è ancora influenzato da “nemici”. Non solo il Venezuela è in difficoltà, ma anche gli alleati (simbolici) come la Cina e la Russia vedono limitato il loro raggio d’azione. Per questo motivo è probabile, se i risultati delle elezioni di ottobre non saranno positivi per la rivoluzione, che il primo campo ed il terzo formino un unico blocco di opposizione e  si impegnino in una campagna finale contro Chávez, cercando di indebolire – forse invano – il fronte regionale.

 

 

*Maximiliano Barreto è laureando in Relazioni internazionali all’Università Nazionale di Rosario (Argentina)

 

NOTE:

[1] Roberto Russell è professore di Relazioni Internazionali presso l’Universidad Di Tella (Argentina) e Juan G. Tokatlian è professore di Relazioni Internazionali presso l’Università di San Andrés (Argentina).


[2] Comunicazione popolare per la costruzione del socialismo nel XXI secolo. “Chávez in carcere”. Disponibile online: http://www.aporrea.org/tiburon/a93835.html


[3] Weber, Max. Economia e  Società.


[4] Ídem.


[5] Ídem.


[6] Termine coniato da Chávez per designare il cambiamento sociale economico e politico avviato dal suo accesso al governo, sulla base delle idee di Simon Bolivar, Simon Rodriguez e Ezequiel Zamora. Vedi: http://www.revolucionbolivariana.org.mx


[7] Sistema politico istituito dopo il patto “Punto Fijo”nell’ottobre 1958 tra i tre partiti politici venezuelani per garantire la stabilità della democrazia restaurata. Questo sistema non era visto da Chávez come una vera democrazia.


[8] Giornale “La Nación”. “Rivelano un piano militare, nel caso della morte di Chávez”. Disponibile sul sito: http://www.lanacion.com.ar/1464830-revelan-un-plan-militar-en-el-caso-de-que-muera-chavez

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Giordania. Dove porterà il nuovo processo politico?

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A più di un anno dall’inizio delle proteste, la Giordania, circondata da una situazione molto delicata, cerca di lanciare un processo di democratizzazione che conduca ad un cambiamento. In attesa delle elezioni, il popolo invia chiari segnali al Re Abdallah II, che promette di riportare serenità alla nazione.

A distanza di mesi dall’inizio delle rivolte nel mondo arabo, partite dal Nordafrica per poi giungere al Vicino Oriente con il recente coinvolgimento della Siria, su cui è rivolta tutta l’attenzione internazionale, anche la Giordania non è stata risparmiata dall’ondata di proteste ed instabilità.

La monarchia hashemita negli anni è riuscita a creare una situazione di equilibrio e a far convivere il lato conservatore-tribale della Giordania con quello “aperto e globalizzato” rivolto verso l’Occidente, ed è sempre stata attenta a non far insorgere malessere all’interno della società.

Si è parlato spesso in occasione delle insurrezioni che hanno contagiato il mondo arabo anche di un possibile coinvolgimento della Giordania e delle sue possibili conseguenze.

Le proteste sono iniziate fuori dalla capitale, nel sud del paese e si sono estese fino ad Amman come, storicamente parlando, accadde in passato con la ribellione del 1989, la cosiddetta “rivoluzione dei poveri”, a cui fece seguito una seconda analoga nel 1996. In entrambi i casi, le richieste non provennero solo da parte dei poveri per il malessere che vivevano, ma s’invocavano cambiamenti politici che sfociarono nella concessione, da parte di Re Hussein, del ritorno alle urne dopo un periodo, dal 1956 al 1989, nel quale non vi erano state elezioni.

Dopo la morte di Re Hussein e l’arrivo al trono di re ‘Abdallah II (dopo un serio scontro all’interno della casa reale), il “processo democratico” è rallentato e i problemi sorti negli ultimi mesi hanno radici che rimandano al 1993, quando venne cambiata la legge elettorale riguardante il voto unico (che permetteva anche a personaggi non “accreditati” di accedere al Parlamento).

Fondamentalmente la protesta in Giordania non si può definire una vera e propria rivolta, poiché si tratta di richieste da parte del popolo indirizzate al Re sotto forma di manifestazioni, ma sempre riconoscendo la sua autorità.

Parte della popolazione ha dato il via alle contestazioni prevalentemente contro l’ex primo ministro Marouf al-Bakhit, fino a qualche mese fa al potere, e non contro il Re, perché nella testa delle persone non c è nessun progetto di cambio di regime ma solo il suo miglioramento: la maggior parte delle richieste prevede una monarchia di tipo costituzionale, e non assoluta com’è ora, e un cambio del sistema elettorale dove sia possibile votare i governi come avveniva già nel 1956.

In piazza sono scese praticamente tutte le forze politiche, dai partiti di destra a quelli di sinistra, capitanati dai Fratelli Musulmani; tutti i riformisti si trovano concordi nella richiesta di un maggiore spazio democratico e di riforme politiche, con l’obiettivo finale di giungere ad una monarchia costituzionale.

Come in tutti i Paesi arabi, vi è stata un’ascesa dei movimenti islamici, e soprattutto dei Fratelli Musulmani, i quali hanno diretto le proteste in varie “piazze” arabe (ma non nel Golfo: si pensi al Bahrein, dove la protesta è a guida sciita): e così è successo anche in Giordania, ma in toni decisamente diversi da altri scenari.

Il movimento politico del Fronte d’Azione Islamico (FIA) è considerato per certi versi uno dei pilastri del regno hashemita. I movimenti islamici in Giordania hanno sempre avuto un ruolo importante e storicamente sono sempre stati “moderati”: infatti, nel corso della storia giordana nessun evento segnala che questa strada sia mai stata abbandonata.
In questi anni, ci sono state tensioni con i vari governi, poiché, invece che cercare il dialogo, si è tentato di eludere i motivi delle proteste e le proposte avanzate, e questo ha indispettito buona parte della popolazione. Molti giordani hanno così iniziato a chiedere maggiori chiarezza e correttezza, boicottando quindi le ultime elezioni del novembre 2010 perché in fondo si offriva di far parte di una coalizione “nominata”, una ripetizione dei governi precedenti senza alcun margine di riformismo. Di un governo eletto direttamente dal popolo non se parlava affatto.
I Fratelli Musulmani pertanto guidano la protesta perché sono gli unici ad avere le idee chiare sulla richiesta di una monarchia costituzionale, nuove elezioni e un nuovo sistema che permettano anche di contenere la corruzione e le frodi che in questi ultimi anni hanno caratterizzato una vita politica che ha perso di vista i bisogni della maggioranza della popolazione.

Detto questo, non si possono tralasciare gli evidenti problemi legati all’aumento dei prezzi di beni di prima necessità, al progressivo aumento della disoccupazione (la Giordania è una società giovane, con un 70% di laureati che non trovano lavoro) e alla povertà in tutto il territorio nazionale (dettata anche dalle “privatizzazioni” eseguite negli ultimi anni, che hanno visto svendite delle proprietà dello Stato a prezzi bassissimi).

Sull’inflazione e la crisi economica sono intervenute anche le tribù beduine, che coraggiosamente hanno protestato contro la regina Rania, rimproverando al Re il suo dispendioso tenore di vita e la sua ‘doppia maschera’, poiché a loro parere i suoi comportamenti internazionali non collimano con quelli tenuti in patria. Anche i militari hanno appoggiato questa iniziativa, dichiarando che la Costituzione giordana dà potere al Re e non a qualsiasi altro membro.

Negli ultimi mesi il Re, per calmare il continuo malcontento, ha nominato un nuovo primo ministro, facendo subentrare al governo Awn Khasawneh. Cambio che è stato accolto con entusiasmo, poiché negli ultimi anni la progressiva intrusione nell’attività parlamentare e nella vita pubblica del General Intelligence Department (GID), i servizi segreti giordani, era diventata molto pesante.

Dalla formazione del nuovo governo, avvenuta in ottobre, si è cercato subito si tendere una mano a tutti i gruppi politici per creare un clima sereno e lavorare insieme sulle riforme, cosa possibile poiché i movimenti non gridano al “cambio di regime”, ma alle riforme necessarie per migliorarlo, avendo fiducia nella guida hashemita. Ed anche lo stesso regime, guidato dal re, vuole le riforme.

Dunque nel Paese c’è l’intenzione di evitare rivolte che portino a inutili spargimenti di sangue come accaduto in altri paesi arabi, esplorando invece la possibilità di attuare riforme che portino benefici veri. Non si può negare, soprattutto agli inizi delle proteste nel 2011, che ci siano stati alcuni scontri tra manifestanti pro-regime, oppositori e forze di polizia, ma niente che possa essere paragonato a quello che succede negli altri paesi arabi.

C’è una precisa tabella di marcia che il governo si sta impegnando a rispettare al fine d’introdurre tali riforme politiche, tra cui la creazione di un “comitato indipendente” che supervisioni lo svolgimento delle elezioni parlamentari.

Il governo sta lavorando per ottenere elezioni di qualità per assicurare la stabilità del Paese, poiché è stato dimostrato che la “vecchia maniera” non è più praticabile nel mondo arabo. Come afferma il premier giordano, “l’obiettivo è trovare un’equazione che permetta di restaurare lo stato civile esistente già nella Costituzione del 1950, e di porre fine alla segregazione tra i cittadini, cosicché la volontà del popolo non sarà plasmata da fuori”.
Il regime giordano non è stato costruito su di una persona salita al potere in seguito ad un colpo militare, ma si tratta di un regime che si basa su una dinastia reale con retaggio religioso, quindi in via di principio nulla impedisce una convergenza tra il regime stesso e l’interesse del popolo.

Inoltre, vista la situazione interna molto delicata e in fase di sviluppo, il Re giordano sa di non potersi permettere passi falsi, considerata la posizione geopolitica della regione:
la “rivoluzione siriana” sta interessando direttamente la Giordania non solo perché il paese interagisce col popolo siriano a livello tribale, economico e agricolo, ma anche per altri fattori interni molto delicati.

ll problema dei profughi in fuga dalla Siria non è da sottovalutare. Infatti, secondo un ufficiale del ministero degli Interni, in Giordania sarebbero presenti in quantità molto più elevate che in Turchia e in Libano, e lo Unhcr – secondo le ultime stime – ha dichiarato 7.584 profughi che già assiste ed altri 2.000 in attesa di registrazione, oltre aver individuato altre 20.000 persone che già sono aiutate da organizzazioni locali1.

Sul versante militare il paese è al centro della questione, dato che fonti vicine all’ex primo ministro come il sito “albawaba2, dichiarano che dentro il territorio giordano, nella zona di al-Mafraq, a nord del paese, un certo numero di libici3 si sta addestrando in una zona cuscinetto a nord del territorio per supportare l’opposizione siriana, oltre ai già presenti militari americani che, ritiratisi dall’Iraq, si sarebbero stanziati, secondo un rapporto del dicembre 2011 del sito di intelligence israeliana Debka4, a ridosso del confine con la Siria.

Anche la paura che il “processo di pace israelo–palestinese” s’interrompa può allontanare qualsiasi speranza che possa nascere uno Stato palestinese, sfruttando così il momento di debolezza del paese che potrebbe portare all’affermazione dell’idea che “la Giordania è la Palestina”, ovvero la “patria” per tutti i palestinesi.

E proprio sulla questione israelo-palestinese, nel discorso al Parlamento Europeo del 18 aprile, il Re di Giordania ha dichiarato che “la sola soluzione possibile per una stabilità definitiva è la creazione di due Stati che vivano in pace, uno accanto all’altro”, perché “non si può permettere che un’altra generazione aspetti l’arrivo di uno Stato palestinese”.
Ma nonostante tutti i problemi, il re Abdullah II, dopo esser stato ricevuto al Parlamento europeo dal presidente Martin Schulz, ha dichiarato che “la Primavera araba è stata presa come un’opportunità”, spiegando che attraverso il processo di democratizzazione, le riforme economiche e politiche la Giordania intende essere un rifugio in una regione attraversata dalle turbolenze politiche5.

Dopo questo intervento del Re e tante speranze, arrivano notizie in base alle quali il parlamento giordano ha messo al bando il Fronte d’Azione Islamica, il più importante partito d’opposizione del paese. Il provvedimento, che vieta la creazione di qualsiasi gruppo o partito a base religiosa, etnica e confessionale, è passato in data 16 aprile alla Camera bassa con 46 voti favorevoli su 83. Ora deve essere approvato dall’Assemblea dei notabili.
Questo, se confermato, impedirebbe ai Fratelli Musulmani di presentarsi alle prossime elezioni parlamentari.

Un nuovo processo politico sembra essere avviato, e anche se qualcuno esprime pessimismo, la popolazione è in fase d’attesa per vedere a cosa porterà questo cambiamento.

*Nicolò Perazzo è laureato in Filologia araba presso l’Università di Granada (Spagna) dopo una lunga esperienza in paesi arabi come Yemen, Giordania, Siria ed Egitto, dove ha studiato lingua araba, dialetti e Corano.

NOTE:
^1. http://www.unhcr.org/4f6c501e6.html
^2. http://www.albawaba.com/ar
^3. http://www.abc.es/20111217/internacional/abcp-islamistas-libios-desplazan-siria-20111217.html
^4. http://www.debka.com; http://www.infowars.com/u-s-nato-troops-reported-on-jordans-border-with-syria/
^5. http://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/content/20120413STO42890/html/Il-re-Abdullah-II-di-Giordania-La-Primavera-araba-%C3%A9-un%27opportunit%C3%A0

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Prospettive geopolitiche della Corea Popolare. Nel centenario della nascita di Kim Il Sung (1912-2012)

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Un’approfondita analisi della situazione coreana ed una vasta panoramica sulle questioni geopolitiche che ruotano attorno al 38° parallelo: questi i contenuti della prima apprezzata conferenza organizzata dal Centro Studi Eurasia Mediterraneo dal titolo Prospettive geopolitiche della Corea Popolare. Nel centenario della nascita di Kim Il Sung (1912-2012), svoltasi mercoledì 18 aprile a Trieste.

L’iniziativa, promossa in collaborazione con la sezione italiana della Associazione d’Amicizia Coreana e con l’associazione culturale triestina Strade d’Europa nell’ambito dei Seminari di Eurasia, si è aperta con una dettagliata ricostruzione della storia coreana dell’ultimo secolo a cura del collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” Marco Bagozzi, autore del volume Con lo spirito Chollima (inerente la storia del calcio nella Repubblica Popolare Democratica di Corea e che ha sbugiardato molte delle notizie false e tendenziose diffuse dai media occidentali dediti a demonizzare Pyongyang pure attraverso la cronaca sportiva) e della prefazione al volume del redattore di “Eurasia” Alessandro Lattanzio Songun: antimperialismo e identità nazionale nella Corea socialista (corposa analisi delle risorse militari e delle impostazioni strategiche di un Paese arbitrariamente inserito nel cosiddetto “asse del Male”). In particolare l’intervento ha spiegato cosa siano il Songun e lo Juché: quest’ultimo, traducibile come “indipendenza”, è l’approccio che Kim Il Sung ha conferito al socialismo coreano nel secondo dopoguerra, al di fuori dei dogmatismi marxisti e delle ortodossie moscovite, pur senza degenerare mai nel frazionismo, bensì coerentemente con la cultura locale e le esigenze di modernizzazione di questa nazione asiatica. Interpretato da molti nel senso di “autarchia”, Songun significa più propriamente “esercito al centro” ed è pertanto il riconoscimento dell’importanza del ruolo delle forze armate nella travagliata lotta per l’indipendenza prima e nella difesa delle conquiste sociali e patriottiche in seguito, a partire da tre pilastri: la difesa della sovranità nazionale, il rafforzamento dell’esercito e la centralità dello Stato.

Bagozzi ha poi incentrato il suo intervento sulla storia della politica estera della RPDC, partendo dalla tragedia della Guerra di Corea. Si è così ricordato come all’indomani della riconquistata indipendenza dal Giappone, la Corea avrebbe dovuto rientrare nella sua interezza nell’orbita dell’URSS, come stabilito a Yalta e coerentemente con la volontà della stragrande maggioranza della popolazione che riconosceva in Kim Il Sung il leader indiscusso della lotta antigiappponese. La linea di separazione al 38° parallelo derivò pertanto da una scelta statunitense che non teneva conto di alcuna caratteristica morfologica o di differenti sensibilità presenti sul territorio, bensì si trattò di un’ingerenza finalizzata a consolidare la presenza a stelle e strisce in Estremo Oriente e ben presto la tensione portò al sanguinoso conflitto d’inizio anni Cinquanta. Bagozzi ha poi fatto accenno al ruolo di pacificatore che ha assunto Kim Il Sung nel conflitto sino-sovietico e il punto di riferimento che il suo Paese ha svolto per gli stati del Terzo Mondo, proponendo in chiave asiatica quel “socialismo multilateralmente sviluppato” che ritroviamo nella Romania di Nicolae Ceausescu. L’analisi ha poi toccato i drammatici anni ’90, con il Partito costretto a superare la grande crisi causata dalle carestie, dalle alluvioni e dal crollo del blocco socialista, e il progressivo ritorno all’autosufficienza celebrata proprio nel centesimo anniversario della nascita di Kim Il Sung.

Appassionato e coinvolgente è stato l’intervento del prof. Aldo Colleoni, già docente dell’ateneo triestino, ma soprattutto ex Presidente dell’Ufficio di Corrispondenza Commerciale Italia-RPDC, in quanto pioniere del percorso che ha condotto all’apertura delle relazioni diplomatiche tra Roma e Pyongyang. Nelle alterne vicende della guerra di Corea la NATO ebbe il suo battesimo del fuoco e Colleoni ha ricordato come saggiamente l’Italia limitò il suo contributo alla fornitura di un ospedale da campo: questa mossa umanitaria avrebbe in seguito avuto particolare importanza nel momento in cui sarebbero cominciate le trattative per normalizzare i rapporti italo-coreani. L’alleanza atlantica caratterizzò altresì il suo intervento scaricando sul territorio della penisola asiatica un quantitativo di bombe pari a quello utilizzato nel corso di tutta la Seconda Guerra Mondiale (ed il Generale Douglas MacArthur avrebbe a un certo punto voluto portare le sue truppe fino in Cina, ricorrendo addirittura alla bomba atomica), sicché ancor oggi la vegetazione risente del napalm allora riversato ed il suolo disboscato è soggetto ad alluvioni e carestie. Ricordando ancora come lo Juché abbia consentito di raggiungere notevoli indici di sviluppo economico attraverso un’economia pianificata in maniera similare alla Jugoslavia di Tito, Colleoni ha poi evidenziato come invece a Seul si sia instaurato un regime fantoccio, i cui vertici sono stati fino a pochi anni fa costantemente emanazione delle forze armate, e legato a doppio filo con Washington, cosicché la tanto decantata “tigre coreana” oggi è stata travolta dalla medesima crisi economica che ha colpito il suo invasivo alleato. Se di questi aspetti politico-economici in occidente poco se ne sa, altrettanto poco si dice riguardo le manifestazioni che si svolgono sempre più frequentemente in Corea del Sud per invocare la riunificazione della penisola e la fine dell’ingombrante presenza militare statunitense. In effetti ai tempi della presidenza Clinton si era anche giunti ad un accordo finalizzato ad una confederazione tra Seul e Pyongyang, la quale si sarebbe chiamata Repubblica Confederale di Koryo, rispolverando l’antica denominazione della Corea, e comprensivo di un accordo stile Guantanamo per quanto concerneva le basi militari USA presenti nella porzione meridionale. L’irruenza di Bush II ha, però, riportato tutto allo status quo ante, cioè una situazione in cui vige ancora un regime armistiziale e non è stata stipulata una vera e propria pace tre le parti in guerra nel 1950-’53. A conclusione del suo intervento Colleoni ha ripercorso le tappe con cui grazie alla collaborazione dell’Ambasciatore italiano a Pechino, il figlio d’arte Alessandro Quaroni, è giunto nel 2000 al riconoscimento diplomatico della RPDC, al cui interno da allora numerose aziende italiane hanno trovato opportunità di sviluppo e di collaborazione.


 


 

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